L'inferiorità del maschio italiano è acclarata dai libretti universitari e dai voti di laurea

Roberto Volpi
Che cos’hanno le ragazze e le donne italiane, le giovani donne nostre connazionali, più dei ragazzi e dei giovani uomini italiani? Siamo in presenza di un monopolio femminile dell’intelligenza. I dati degli atenei non ammettono repliche. La parità intellettuale dei sessi è davvero improponibile?

Ma insomma, che cos’hanno le ragazze e le donne italiane, le giovani donne nostre connazionali, più dei ragazzi e dei giovani uomini italiani? La domanda è serissima, perché c’è un “tribunale” secondo il quale le prime hanno molto, ma molto di più rispetto ai secondi. E proprio sul piano intellettuale e culturale, sul piano della capacità di apprendere e di elaborare quanto appreso, sul piano più elevato insomma. Il discorso è particolarmente serio se quel tribunale si chiama nientemeno che “università”. Perché secondo quel tribunale che è l’università italiana, tra donne e uomini non c’è partita. E’ un dato. Ogni 100 uomini che si laureano ci sono ben 144 donne che fanno altrettanto (mentre il rapporto tra gli immatricolati è di 123 donne ogni 100 uomini) e ciò corrisponde a un numero di donne laureate che ogni anno supera quello degli uomini laureati di oltre 50 mila: una enormità.

 

Nell’ultimo anno di cui si dispone dei risultati, si contano 176 mila laureate contro 122 mila laureati. Ma questo è solo il primo aspetto della differenza tra i sessi decretata dall’università. Ce n’è un secondo, non meno rilevante. Su poco meno di 300 mila laureati annui, 62 mila lo fanno col massimo dei voti: 110 e lode (quasi un laureato su quattro si congeda dall’università con la lode, e viene da domandarsi se siamo un popolo di geni). Ma le donne laureate con 110 e lode sono oltre 40 mila, gli uomini laureati con lo stesso voto meno di 22 mila, cosicché se il divario tra donne e uomini fra i laureati vale 144 a 100, quello donne–uomini tra quanti ottengono 110 e lode s’impenna fino a raggiungere la vetta di 186 a 100: quasi il doppio.

 



 

Mettiamo assieme i due aspetti e ne ricaviamo che, statisticamente parlando, donne e uomini appartengono a due universi significativamente separati di cui uno, quello delle donne, più intelligente dell’altro. O, almeno, se non proprio più intelligente, senz’altro più capace di produrre risultati che l’università considera più intelligenti, ossia migliori; molto di più rispetto a quelli prodotti dall’universo maschile. Semplice e inconfutabile. La questione, sotto forma di domanda, può essere posta in questi termini: è realistico pensare che le giovani donne italiane siano a tal punto più intelligenti – o se non altro più capaci di produrre migliori risultati sul piano culturale – dei giovani uomini italiani? Un modo per cercare di rispondere al delicato quesito è di verificare se il divario donne-uomini si produce pressoché ovunque, in tutte o quasi le regioni e in tutte o quasi le università italiane, o se invece non si concentra in misure formidabili solo in determinate realtà.

 

In questa seconda eventualità potremmo concludere che, non essendo affatto generalizzato, il divario in questione non può dirsi certo, variando a macchia di leopardo. Tale verifica fornisce a un tempo una risposta secca e un assai modesto dubbio. Partiamo dalla risposta secca: non c’è una sola regione dove si assiste a una eccezione rispetto al dato generale. In tutte, la preminenza femminile tra i laureati e ancor di più tra i laureati con 110 e lode è netta e senza discussione. Il valore minimo del rapporto donne-uomini tra i laureati lo troviamo nel Lazio ed è di 128 donne laureate ogni 100 uomini. Il valore minimo del rapporto donne-uomini tra i laureati con 110 e lode lo troviamo in Trentino Alto Adige ed è pari a 133 a 100. Subito dopo, c’è il Piemonte, ed ecco che il divario schizza a oltre 150 a 100.

 

Non va affatto meglio, per gli uomini, sul piano delle singole università: praticamente non c’è sede che annoveri un maggior numero di laureati maschi. Solo alla Bocconi la partita finisce in parità. La graduatoria delle grandi università italiane secondo il rapporto tra laureate e laureati è di quelle che tolgono il respiro, tanto il dominio femminile tra quanti arrivano a conseguire la laurea è ininterrotto e folgorante. In ordine decrescente: La Cattolica (Milano), 223 laureate ogni 100 laureati; Ca’ Foscari (Venezia), 219; Bari, 218; Milano Bicocca, 185; Palermo, 172; Torino, 171; Milano Statale, 167; Firenze, 162; Federico II (Napoli), 158; La Sapienza (Roma), 152. Bisogna andare nei politecnici per trovare più laureati che laureate, ma anche qui le donne stanno rimontando in fretta.

 

Spazio per i dubbi non sembrerebbe essercene affatto, dunque. I dati sono da cappotto. Eppure al centro nord abbiamo 135 laureate ogni 100 laureati mentre ne abbiamo ben 165 ogni 100 nel Mezzogiorno. Un divario che suggerisce spunti di riflessione. Il dominio femminile è indiscutibile anche al centro nord, ma rappresenta sostanzialmente la metà di quello che si verifica al sud. E’ un piccolo indizio del fatto che il monopolio femminile della “intelligenza universitaria”, cioè dei migliori risultati universitari, appare meno coriaceo e inattaccabile al centro nord. Poca cosa, però. Per dirla tutta, bisogna osservare inoltre che sul piano dell’università non c’è partita tra uomini e donne: queste ultime stravincono, dominano, signoreggiano.

 

Ma allora sovviene un’altra domanda, non tanto ispirata dalla nostra incapacità maschile di accettare i verdetti quando ci sono sfavorevoli: possibile che l’inferiorità maschile non venga mai meno, non si smorzi mai, mai defletta e che la superiorità femminile non conosca tregua né misericordia? Non sarà che anche l’università debba, sull’onda di queste domande, interrogare se stessa e chiedersi perché si verifica un tale fenomeno? E se davvero questo fenomeno corrisponda alla realtà delle cose, a una davvero improponibile parità intellettuale tra i sessi? O se non sia piuttosto un’invenzione almeno in buona parte universitaria? Tutte domande che meritano qualche riflessione, forse.