E' morto Prince, popstar misteriosa e magmatica. Ora inizieremo a scoprirlo davvero
Avvolto in quello strano, indefinibile mistero nel quale è vissuto, Prince è morto nella sua casa di Paisley Park, dopo che da qualche giorno circolavano notizie poco rassicuranti sulle sue condizioni di salute, a causa delle quali i suoi ultimi concerti americani erano stati cancellati. Aveva 57 anni e all’anagrafe di Minneapolis, dove è nato e ha sempre vissuto, era registrato come Rogers Nelson. Inutile dire che la sua scomparsa non fa che allungare ancora la lista di lutti disseminati lungo questo 2016, già bollato come anno orribile del pop, da coloro che non fanno i conti col tempo che passa e con la progressiva resa dei conti del sistema delle celebrità, glorioso e ammaccato esercito ormai avviato sul viale del tramonto. Ma anche in questo Prince s’è sempre distinto come un caso a parte, padroneggiando dall’inizio della carriera fino alla fine, un rapporto di sottile sadismo con tutto ciò che non facesse parte del suo inner circle e non ricadesse tra le sue simpatie – a cominciare ovviamente dai media, perennemente tenuti in sospetto, nonché dall’industria discografica, considerata praticamente la sua nemesi.
La sua, in fondo, era l’ennesima versione dello scetticismo del genio a vari gradi incompreso, che si concede solo quel tanto che basta a strutturare la leggenda, ma che non si fa, e non dà, illusioni riguardo alla comprensione del suo lavoro e della sua ricerca. Che poi era un lungo viaggio, tutto individuale e segreto, alle radici della black culture, alla relazione che con essa non smetteva di avere la musica, come forma di comunicazione e d’ispirazione collettiva, all’interno della quale vigevano delle categorie religiose – quelle della melodia e dei ritmi, del corpo e dell’anima.
Poi tutto ciò esplodeva in un diluvio armonico, in forme cangianti, che transitavano attraverso la danza e la celebrazione, i colori e le mode, gli slang e il body language, l’arte e l’erotismo. Un viaggio solitario, attraverso e a cavallo della musica nera, senza mai discostarsi dalle suggestioni primarie del soul, del blues e del jazz, facendosi le ossa attraverso il più muscolare funk mai ascoltato, dispiegandosi nella scrittura di ballads memorabili, sfiorando magistralmente il pop, accarezzando il black cinema portando via un Oscar come souvenir, virando infine severamente verso una ricerca che per gran parte ha scelto di tenere per sé, licenziandone pochi scampoli, trasformando il suo ultimo decennio di carriera in una laconica lista di episodi sconnessi tra loro, salvo la più recente ripartenza, quando d’un tratto a ricominciato a pubblicare dischi gli uni dagli altri diversissimi – dal metal a new r’n’b – come se nel frattempo i Prince si fossero moltiplicati e comunque i segreti fossero sempre conservati nei forzieri del suo studio di registrazione.
La storicizzazione di Prince sarà ora un procedimento complesso: c’è ciò che sappiamo, conosciamo e amiamo, dalla bomb culture a “Purple Rain”, da “Kiss” al “Love Symbol Album”, dal suono torrido dei (delle) sue Revolution a quella runa inventata e trasformata nel suo codice e nel suo nome temporaneo, fino alla sua pirotecnica guerra contro le major discografiche, fieramente nel nome dell’indipendenza creativa – eppure dando la sensazione che il suo fosse soprattutto il dispetto d’un “fuori casta”. Ora il suo after life minaccia di essere una pirotecnica esperienza a parte, una scoperta inesauribile e sconcertante, forse perfino, una rivoluzione – come piaceva evocare a lui. Presto conosceremo i misteri della sua collaborazione con Miles Davis, sentiremo le dozzine di inediti registrati e mai pubblicati con tanti numi tutelari del suono nero. E proveremo a orientarci nei meandri di questo personaggio che ha voluto essere magmatico. Accontentandosi di offrire di sé una visione elegantissima, di sublime stravaganza, ma lontana e distaccata. E poi, sempre, spudoratamente sexy, anche se non è per niente facile riuscire a spiegare il perché.
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