Indagini di cui vergognarsi
Che l’infermiera (forse non più) killer di Piombino – la signora Fausta Bonino, sarebbe meglio chiamarla – sia una colpevole che non è ancora stata scoperta, questo è pacifico. Che i pm che danno la caccia alle infermiere killer abbiano solo migliorato la loro razza, rendendole più difficili da scovare, è evidente anche questo. Che i colpevoli vengano alla fine tutti condannati in base alle intercettazioni da cui i pm avevano preso le mosse, è incontestabile. La dottrina Davigo non si discute, si applica. Poi però succede che nell’inchiesta che ha portato in galera la signora Bonino c’è un errore dei pm. Ed è un errore grave, perché riguarda proprio quella che tutti i pm, fedeli alla dottrina Davigo, ritengono lo strumento fondamentale dell’indagine. Anzi la prova primigenia su cui si regge il tutto. Anzi la pietra filosofale che svela le nefandezze segrete di tutti i cuori.
Insomma: l’intercettazione. Succede che nell’intercettazione-regina, quella in cui Bonino avrebbe detto a una collega “non dire nulla”, be’, non era Bonino a parlare. Hanno orecchiato male. E il Riesame ha stabilito che la signora infermiera non era nemmeno da arrestare. Anche perché, tra le altre cose zoppicanti dell’inchiesta, c’è il fatto che i pm avevano deciso di indagarla per ben 13 omicidi, mentre si sapeva che solo 4 morti erano state causate dall’eparina, la famosa arma dei delitti. Così il procuratore capo di Livorno, Ettore Squillace Greco, è stato costretto a difendere l’indifendibile, ovvero il lavoro dei suoi pm: “E’ un processo indiziario, lo è stato fin dall’inizio. E in un processo indiziario certe cose accadono”. Ditelo alla signora Bonino. E anche a Davigo, magari.
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