Il concorsone e la buona (?) scuola
Vi scrivo da una lontana nazione immaginaria dove i quotidiani non dedicano lenzuolate polemiche ai concorsi per aspiranti insegnanti. Qui nessuno si lamenta che i posti messi in palio siano troppi o troppo pochi; non ci sono regioni in cui i candidati sovrabbondano né altre in cui scarseggiano, e non si discute se sia giusto pagare i commissari sessanta centesimi all’ora; i candidati non si spaventano perché scoprono di dover usare il computer anziché il foglio protocollo né protestano contro le domande a risposta aperta, dopo avere protestato contro quelle a risposta multipla. Nessuno sparge la voce che siano arrivati i carabinieri a sospendere le prove scritte né proclama quanto sia restrittivo selezionare un candidato su tre. Qui la conoscenza dell’inglese viene vista come elementare prerequisito per la vita civile e non come stratagemma per eliminare candidati che in italiano sarebbero preparatissimi; qui nessuno fa ricorso contro il fatto che non avere seguito corsi di abilitazione non gli consenta di partecipare al concorso per cui ha titolo legale, e nessuno si chiede che bisogno abbia di partecipare al concorso, magari a quarant’anni, se ha già ottenuto l’abilitazione a trentacinque.
Per ovviare a queste controindicazioni qui è stata battuta la strada più breve: abolire i concorsi. E i corsi d’abilitazione. E le graduatorie a esaurimento. In questa fantastica nazione immaginaria le assunzioni nelle scuole avvengono esclusivamente tramite chiamata diretta da parte del preside, libero di scegliersi i docenti che crede in qualità di dirigente scolastico; altrimenti, che dirigente è? L’utopia scolastica ha i suoi costi, anche drastici, e la completa autonomia degli istituti è uno di essi; naturalmente necessita di contrappesi, pertanto qui si sono organizzati così. L’abilitazione all’insegnamento non viene conseguita pagando allo stato anni di corvée come si fa in Italia – dove, dopo la laurea, è prevista l’iscrizione a onerosi corsi di didattica – bensì con un apposito indirizzo di laurea magistrale: un biennio in cui ai contenuti della materia specifica si assommano rudimenti didattici, uscendone più che corazzati per l’insegnamento.
Il numero chiuso non viene adottato nella selezione dei laureati per questi corsi dagli astrusi acronimi (Ssis, Tfa, Pas) ma già all’ingresso della laurea, così da evitare l’accumulo di docenti inutilizzati. In ottemperanza a un’intelligente proposta del Sole 24 Ore, inascoltata in Italia, è stata serbata un’eccezione statisticamente irrilevante per chi abbia un dottorato, che dà automaticamente diritto a insegnare a scuola la materia su cui si fa ricerca. Conseguita la laurea abilitante, si lascia il proprio curriculum nelle scuole in cui interessa insegnare; il preside sceglie quelli che ritiene capaci, li convoca per un normale colloquio di lavoro e assume – inaudito! – i candidati preparati e convincenti.
Anche i più refrattari sindacati si sono persuasi della bontà intrinseca di questo metodo quando è stato loro assicurato che ogni preside risponde delle proprie scelte per mezzo di una valutazione periodica della qualità della propria scuola, su parametri incontestabili: i voti di maturità degli alunni, che vengono attribuiti da commissioni di docenti universitari secondo criteri uniformati nazionalmente, e il rendimento degli alunni negli studi o sul lavoro nei cinque anni successivi al diploma. Se la scuola non funziona, il preside viene giubilato; altrimenti, premiato. Una buona scuola è quella in grado di fornire agli alunni i migliori docenti, creando una competizione che spinga i presidi a cercare gli insegnanti con la professionalità più elevata garantendo loro che saranno accolti in un istituto di alto livello, mentre gli insegnanti s’impegnano a incrementare costantemente le proprie capacità. Come sarebbe bello vivere in questa nazione, e quant’è impossibile.
Il Foglio sportivo - in corpore sano