Oltre Di Matteo. La verità di Fiandaca sul travaglismo giudiziario
Roma. Dettare la linea politica, ormai, per alcune procure italiane non basta più. Ora si punta dritti all’agenda morale. Ne ha avuto conferma Giovanni Fiandaca, uno dei più noti giuristi italiani, professore di Diritto penale all’Università di Palermo. La notizia della sua partecipazione come relatore a un seminario organizzato dalla Scuola superiore della magistratura, dedicato al reato di concorso esterno in associazione mafiosa, non è andata giù al pm-simbolo del processo sulla trattativa stato-mafia, Nino Di Matteo. “L’avere espresso giudizi fortemente critici nei confronti delle impostazioni accusatorie di processi in corso in questo distretto è forse diventato motivo di ulteriore merito per la scelta dei relatori?”, si è chiesto Di Matteo in un’email inviata ai suoi colleghi, facendo riferimento alle critiche avanzate in passato da Fiandaca proprio nei confronti del debole impianto accusatorio del processo di Palermo.
Insomma, non sostieni il grande teorema collettivo della trattativa? Allora non hai diritto di parlare. Interpellato dal Foglio, il professore precisa di non avere “nulla di personale” nei confronti di Di Matteo, ma ammette di non riuscire a comprendere le ragioni di questo “giudizio di inopportunità”: “Se lui intende dire che i relatori dei convegni dei magistrati devono essere scelti sulla base, oltre che della loro competenza sull’argomento, di una preventiva verifica del consenso che loro prestano ai processi in corso, il dott. Di Matteo esprime un orientamento che è assolutamente privo di giustificazione tecnica, culturale, e anche sindacabile dal punto di vista del rispetto di alcuni princìpi costituzionali”.
L’elemento più preoccupante da considerare, però, secondo Fiandaca, è che le parole del pm palermitano “sono sintomatiche di una cultura giudiziaria che va al di là della sua persona”, e che spinge ad attribuire al magistrato “una sorta di monopolio nel modo di interpretare i fenomeni criminali e nel fornire risposte ai grandi problemi che riguardano il nostro paese”. I magistrati pretendono così di esercitare un “potere veritativo, esclusivo o privilegiato, e di essere quelli più in grado di indicare alla politica i rimedi ai problemi”.
Una cultura – prosegue il professore – all’interno della quale rientrano le recenti esternazioni del presidente dell’Anm Piercamillo Davigo, per le quali in tema di corruzione nella politica, nulla sarebbe cambiato dai tempi di Mani pulite: “Per il semplice fatto di essere ormai diventati dei simboli, i magistrati non possono assurgere a criminologi e sociologi che fanno affermazioni di portata generalissima”, commenta Fiandaca. “Sulla base di quali riscontri empirici sta dicendo tutto ciò? A parte i processi fatti in passato, ha più di recente condotto indagini empiriche ad ampio raggio sulla corruzione in Italia, o si tratta di giudizi impressionistici?”.
Ma nel filone culturale di cui parliamo rientrano anche alcuni organi di informazione, come il Fatto Quotidiano, che ieri, commentando la vicenda Fiandaca-Di Matteo, ha osservato che le posizioni espresse dal professore impedirebbero il percorso di “ricostruzione di una memoria nazionale condivisa”. Per Fiandaca sono segnali evidenti che in Italia si sia venuto ad affermare “un orientamento culturale illiberale”: “Ciò che mi sorprende è che la cosiddetta antimafia, quella progressista e di sinistra (a parole), ormai da qualche tempo ha smarrito tutti i fondamenti basilari della democrazia liberale e si fa portatrice di una cultura totalitaria”. “Un’antimafia bigotta, dogmatica, a suo modo anche opportunista – aggiunge – e un certo travaglismo giudiziario, hanno immesso delle tossine gravissime nel dibattito pubblico che hanno determinato un deterioramento della cultura politica, giuridica e democratica di questo paese”.
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