Zac Goldsmith

Il sogno di Zac Goldsmith

Cristina Marconi

Possibile per i londinesi non rimpiangere Johnson? Goldsmith ci prova e spiega al Foglio come approfittare del caos laburista, difendendo la Brexit e rilanciando il mantra green.

Londra. “Guarda la mia squadra di volontari. Sono molto internazionali e anche il resto di Londra è così”. E’ un sabato pomeriggio di fine campagna e Zac Goldsmith raggiunge un manipolo di sostenitori in una stradina assolata dell’ovest di Londra, quartiere ricco in cui già piace a tutti. Folla giovane da country club, belle donne molto truccate, una ragazza gli porta un coniglietto vivo e grassottello come portafortuna e Zac sorride a tutti, stringe mani con il suo spezzato blu – si sospetta – meno splendido di quelli che indossa di solito. Se l’aria è kennediana, le maniere restano quelle gentili e quasi schive del ragazzo molto educato, quasi troppo. Del piglio da politico consumato non c’è traccia, della pirotecnia di Boris Johnson neppure e proprio il carisma di quest’ultimo, stando ai sondaggi, sarebbe il grande assente della campagna di Zac per la City Hall.

 

Per questo gli elettori sarebbero più orientati a premiare il self made man Sadiq Khan, laburista di lungo corso e di area milibandiana (tendenza Ed) nato in una casa popolare a Tooting da genitori pachistani, nonostante la sostanziale somiglianza delle politiche proposte dai due candidati: niente espansione dell’aeroporto di Heathrow, entrambi vogliono investire nella rete di trasporti e avviare un programma di edilizia a costi sostenibili, entrambi parlano molto di inquinamento e ambiente. YouGov profetizza 20 punti di vantaggio per Khan, che si è anche impegnato ad abbassare il prezzo dei trasporti londinesi – “promesse che costerebbero 1,9 miliardi di sterline, ma se uno toglie 1,9 miliardi di sterline dall’infrastruttura dei trasporti ottiene un disastro per Londra”, spiega Zac. Con due candidati distinti da una oceanica questione di classe ma uniti dalla mancanza di proposte forti, il voto del 5 maggio scalda gli animi e non sorprende: gli occhi sono tutti al referendum del 23 giugno.

 

“La Brexit non è un problema del sindaco, il suo compito è aspettare la decisione dei britannici e farla funzionare, qualunque essa sia”, spiega Goldsmith al Foglio, aggiungendo che lui, in quella campagna lì, non è coinvolto. Eppure il figlio di James Goldsmith, leggenda in materia di euroscetticismo e di molto altro, l’ha detto chiaro e tondo: voterà per uscire. Se il 23 giugno la maggioranza si esprimesse allo stesso modo “Londra diventerebbe ancora più internazionale”, secondo lui, che ritiene “da pazzi” pensare che la capitale britannica possa riavvolgere la pellicola e tornare tutta inglese. “La Brexit non è questione di alzare i ponti e di dire no agli stranieri. Magari per alcune persone lo è, ma penso che per la stragrande maggioranza il problema sia di democrazia”, prosegue, e lì si capisce che siamo nel terreno delle convinzioni radicate di un globalista nato, lontano anni luce dall’antieuropeismo insulare e identitario di un Nigel Farage o di molti membri dei Tory. Il Partito conservatore – a sentire Goldsmith – non è affatto spaccato ma solo attraversato da un “dibattito civile su una questione importante”. La questione, in questa primavera prereferendaria, dilania un po’ tutti: “La comunità finanziaria, Londra, il Labour, la maggior parte della gente se si guarda ai sondaggi, sono tutti divisi sull’Europa”.

 

Sebbene nel Partito conservatore la faida in corso tra gli europragmatici di David Cameron e il capitano di ventura della Brexit Boris Johnson sia di quelle violente – “è una questione enorme e per questo siamo arrivati al referendum, ma il mio partito non è diviso” – per Goldsmith bisogna guardare al Labour e solo al Labour per vedere un partito sull’orlo della rottura. “Il partito impazzito, diventato matto”, lo definisce nel breve discorso ai suoi sostenitori, e non ci sarebbe modo per Sadiq Khan di allontanarsi da questa verità: un voto per lui è un voto per il Labour di Jeremy Corbyn. “Il Labour è in stato confusionale vero. Un numero molto sostanzioso di moderati del partito non lo riconosce più e ci sono ferite aperte sull’antisemitismo con cui ora devono fare i conti. E’ diventato un vero problema, dall’alto in basso”. Fosse l’unico. “Il Labour non è mai stato così ostile alle imprese, il suo leader ne parla come del vero nemico e cita gli scioperi come arma finale”. Quasi quasi si accalora, Zac. “Penso che il Labour sia conciato veramente male e che questa sia una prospettiva terrificante non solo per gli elettori ma anche per i membri del Labour”.

 


Zac Goldsmith, candidato sindaco conservatore a Londra, sorseggia una birra con il sindaco Boris Johnson. I tabloid hanno ironizzato sul modo con cui Goldsmith tiene il boccale. Si vota il 5 maggio


 

E poi il sindaco di Londra deve parlare con il governo: “Il mio rivale non è in grado di farlo, è troppo tribale”. Ma nelle ultime settimane l’argomento più contundente usato da Zac contro Sadiq è stato quello della presunta cedevolezza di quest’ultimo nei confronti dell’estremismo islamico. Domenica un suo articolo sul Mail on Sunday dal titolo “Giovedì consegneremo davvero la più grande città del mondo a un Labour che pensa che i terroristi siano suoi amici?” era illustrato da una foto degli attentati del 7 luglio 2005. Una mossa che in molti, anche tra i conservatori, hanno definito sporca, indegna dell’olimpico Zac e dietro la quale si intravederebbe la mano, pesante ma infallibile, di Lynton Crosby, stratega politico di Cameron e massimo teorico della strategia del “gatto morto”: si butta sul tavolo un gatto morto, o qualcosa di pari sgradevolezza, per fare in modo che tutti ne parlino distogliendo l’attenzione dal resto (il resto è che un Alcibiade miliardario ecologista e diligente, per dirla con il Financial Times, “non è una condanna, ma neanche un grande punto di forza” e che alla sua campagna mancherebbero alzate d’ingegno).

 

Zac nega i colpi bassi a Sadiq, “un candidato molto determinato e deciso”, e proseguendo la sua chiacchierata con il Foglio puntualizza: “Non mi sono mai riferito alla sua religione, alla sua etnia o alla sua provenienza familiare. Mai. Mai. In nessun momento. E’ una costruzione del Labour. Ho messo in discussione il suo giudizio perché in passato ha dato spazio di parola, ossigeno e anche scuse a gente che è dal lato molto sbagliato della battaglia ideologica più importante con cui abbiamo a che fare”. Le domande sull’estremismo andavano fatte, come già in passato sono state fatte a Jeremy Corbyn da Yvette Cooper in maniera del tutto legittima. “E’ giusto che lui risponda e che nessuno cerchi di aggirare la questione facendo accuse a caso di razzismo in maniera totalmente irresponsabile e sbagliata”. Anche perché se Zac sarà eletto, promette, farà una squadra bilanciata da un punto di vista sociale, etnico, di genere. “Penso alla polizia. Se vuoi che la gente rispetti la polizia, occorre che la polizia rispecchi la gente”, continua Goldsmith prima di proseguire sul suo progetto di fare di Londra una grande Richmond – la costituency dove è stato eletto 6 anni fa, famosa per il parco coi cervi – tutta verde ed ecologica con la crisi abitativa risolta e la banda larga superveloce per tutti. “Se sarò eletto Londra diventerà la città più verde e pulita del mondo. Abbiamo tutti gli strumenti per riuscirci. Si tratta di promuovere le biciclette, le passeggiate, gli spazi verdi, l’energia solare”, si accalora Goldsmith, che per anni è stato direttore del settimanale The Ecologist (di proprietà di suo zio) e ha fatto da consulente a Cameron in materia ambientale. Ma Richmond è un quartiere così ricco… “Accanto ai ricchi c’è la gente povera, sacche di privazione che forse soffrono più che altre persone nel paese perché se sei povero in una zona ricca le difficoltà a cui devi far fronte sono sproporzionate”.

 

Non è l’esperienza che manca, sostiene: “Non c’è un problema che mi sia stato posto durante la campagna elettorale che non sia già stato posto nella mia constituency”. Quando fu eletto, anche Boris Johnson aveva all’attivo solo sette anni da deputato per Henley e un passato da giornalista e scrittore, veniva da una famiglia dell’alta borghesia internazionale e privilegiata, aveva una sorella famosa – l’arguta Rachel, giornalista, scrittrice e direttrice del magazine The Lady, personalità ben più robusta e poliedrica rispetto alla socialite engagée dai capelli color miele Jemima – ed era accusato di non avere abbastanza esperienza per diventare sindaco di Londra dopo Ken Livingstone, comunista vintage dalle uscite imbarazzanti che aveva fatto fare alla città qualche balzo in avanti – Oyster card per la metro, candidatura alle Olimpiadi del 2012 – nonostante la mentalità retriva che sta venendo fuori con violenza proprio in questi giorni nello scandalo sull’antisemitismo nel Labour. Ma è sotto Boris che Londra ha preso a scintillare sul serio, grazie anche alle capacità istrioniche di un sindaco che ha fatto di se stesso e della sua presunta goffaggine un brand, come quando si fece immortalare sospeso a mezz’aria su una fune a Victoria Park durante le Olimpiadi, diventando il testimonial giocherellone e accattivante di uno degli eventi più riusciti nella storia della capitale britannica. In una classe politica di ex public schoolboys eleganti e pettinati, Boris ha giocato la carta del public schoolboy geniale e discolo per andare incontro alla gente e ha funzionato.

 

“La storia dell’occupazione a Londra è una storia positiva. Ci sono più lavori e imprese di quante ce ne siano mai state in passato. Da quando Boris è stato eletto otto anni fa ci sono 250 mila imprese in più, e il mio lavoro è rendere questa città ancora più favorevole alle imprese”, spiega Zac – uno difficile da immaginare con un casco giallo sulla fune – prima di aggiungere: “I sindaci non creano posti di lavoro, ma garantiscono le condizioni affinché ciò avvenga. Intendo lavorare con il governo per fare in modo che la città abbia un regime fiscale che sia favorevole alle imprese”. E quindi ce la farà, Zac Goldsmith? “I miei trascorsi dimostrano che posso, l’importante è che tu sia onesto e voglia mantenere le promesse”. E cosa manca allora? “Non ti dirò i miei difetti a cinque giorni dal voto”.