Mafia capitale nel fango
Il comune di Ostia è stato sciolto per mafia, ma per la seconda sezione d’appello giudicante la mafia non c’è, c’è crimine, associazione per delinquere, ma non mafia. Il comune di Roma non è stato sciolto per mafia. Gli è andata peggio. A Roma la mafia è la grande ipoteca, la diffidenza universale, lo sputtanamento globale. Roma è stata sciolta politicamente nell’acido, in mezzo a indagini per mafia, dette Mafia Capitale, che un coro senza altro che rarissime eccezioni ha salutato come il grande repulisti di cui si aveva bisogno.
Si è parlato di bilanci colossali dell’azienda criminale, e ora si parla di 20 milioni di danni erariali. Si è parlato di arsenali, e si sono trovati coltellini giapponesi per tagliare il pesce. Si è sceneggiato l’arresto di Al Capone, e si è visto perfino dalle intercettazioni che presso una pompa di benzina, in pomeriggi annoiati in zona Roma nord, tra un usuraio e l’altro che faceva registrazioni di cassa, un vecchio “malamente” della destra capitolina, una specie di gangster senza scettro, altro che boss di mafia, inventava un linguaggio immaginifico per definire le terre di mezzo di un crimine di mezzo. Si è messa sotto accusa una cooperativa di ex detenuti che era il fiore all’occhiello dell’assistenzialismo e dell’ideologia del recupero della sinistra sociale e cattolica, la 29 Giugno, rimproverando a un ex ergastolano che la presiedeva di non usare i metodi di Mediobanca (che a volte te li raccomando anche quelli) per piccoli appalti, raccolta delle foglie, attacchinaggio, campi zingari. I candidati nutriti dall’apocalissi giudiziaria e in gara per la guida del comune, che Dio perdoni la loro mediocrità, brandiscono la mafia come strumento di lotta e propaganda politica. Non uno che abbia avuto il coraggio non dico della verità ma almeno del dubbio, del ragionamento libero, del buon senso. I giornalisti non allineati sono intimiditi dalle querele.
La Cassazione aveva confermato il bollino mafioso su reati minori in un dibattimento con rito abbreviato, ma il processone di Ostia no, in appello si passa da condanne rafforzate dall’incubo mafioso a 26 anni a condanne ordinarie a 6 anni e mezzo; e quello di Roma sonnecchia, tutti si guardano intorno impauriti all’idea che un giudice a Berlino alla fine faccia fare la fine del sorcio alla grancassa di Mafia Capitale, e prendono il via le solite grandi manovre che politicizzano e mediatizzano senza scrupoli i luoghi in cui andrebbe accertata, con gli strumenti del diritto e non della crociata o dell’inchiesta-reportage, una provvisoria verità giudiziaria, figlia di distacco imparzialità e professionalità.
Qui non si dubitò un istante della malagrazia deontologica e della estrema discutibilità di un’accusa di mafia ai sensi del 416 bis elevata nelle circostanze che abbiamo ricordato, con strumenti che facevano dell’accusa un gigante e della difesa un pigmeo, dalle intercettazioni a strascico in cui veniva detta qualunque cosa come in una commedia all’italiana fino ad arresti e detenzioni degne di Pippo Calò, con uno strepito e una logica di leadership giudiziaria a risonanza globale che strideva con l’indagine e la presentazione di un’accusa penale responsabile. Qui rilevammo subito che nessuno degli indagatori e pubblici ministeri era romano, nessuno di loro si mostrava a conoscenza della vecchia e scassata criminalità capitolina, della malamministrazione e della corruzione da sempre dilagante e irrefrenabile nei quartieri alti del comune, con le eccezioni delle giunte Rutelli e Veltroni, dei suoi caratteri pericolosi ma non mafiosi di piccola criminalità, un “romanzo criminale” (genere letterario in cui eccellono gli ex pm diventati scrittori) di profittatori e sbandati o di rentier da quattro soldi negli uffici preposti al mostro burocratico. Qui si stimava, e personalmente si stima, un procuratore come Giuseppe Pignatone, persona assennata che aveva gestito senza enfasi l’iniziativa penale in posti dove mafia e ’ndrangheta spadroneggiano da sempre, nel profondo sud come si dice, ma si dichiarava incredibile la sola idea di annunciare il repulisti a una assemblea del Partito democratico, annuncio fatto per così dire con la toga sulle spalle dal capo del pubblico ministero, ciò che avvenne a qualche giorno dagli arresti, cioè prima degli arresti e dello scatenamento.
A parte il “chi ve lo ha fatto fare” di andare contro simili corazzate, c’è la domanda “ma da dove vi veniva tutta questa diffidenza?”. Si chiama esperienza, si chiama trent’anni di giornalismo a contatto con la realtà di un sistema andato a male, di cui il Foglio discute oggi con fior di testimoni all’Ara Pacis. Leggetevi le lettere di Enzo Tortora alla sua donna, Francesca Scopelliti, sono appena state pubblicate a tanti anni di distanza dal caso, e saranno presentate in Senato venerdì. Vedrete, a parte il resto di quella storia incredibile e struggente, vedrete che Tortora era sicuro di essere stato preso in trappola perché la logica del partito preso, con il corredo del pentimento di camorra e della legislazione speciale che accompagnava tutta la vicenda, aveva conquistato i suoi persecutori in giudizio, e il disastro era fatto. Se Tortora fosse stato accusato di crimini puntuali, fuori dall’atmosfera di caccia alla camorra che con metodi intrinsecamente antigiuridici era in corso, la sua accusa avrebbe retto per ventiquattr’ore e non sarebbe precipitata nel baratro di tristezza e di avvilimento che ha ingoiato per una generazione la fiducia nella giustizia italiana. Colpire i corrotti e i piccoli gangster è una cosa, trascinare nel fango una città è un’altra cosa, come vedremo anche dopo il purificatore ballottaggio di domenica prossima.
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