La Brexit del nuovo mondo
Trump vuole il “leave” dalle élite globali. Obama è il grande sconfitto
New York. “La gente vuole riprendersi i propri paesi”. Dal suo resort per golfisti ad Aberdeen, in Scozia, Donald Trump ha tracciato il “grande parallelo” fra l’epica indipendentista della Brexit, l’autodeterminazione dei popoli europei (“ci saranno molti altri casi in cui la gente vuole riprendersi i propri confini, la propria moneta”) e un’elezione americana in cui il popolo avrà “la possibilità di ridichiarare la propria indipendenza”. Indipendenza da cosa? Dalle eteree “élite globali”, naturalmente.
Il suo nostalgico “Make America Great Again” fa rima con “Take Our Country Back”, un motto del Tea Party perfettamente condiviso dal partito del “leave” e dai suoi alleati antieuropeisti sparsi per il Vecchio continente. Trump è il grande capitalizzatore della Brexit nel Nuovo mondo. Al netto dello scivolone sugli scozzesi che sono impazziti dalla gioia per l’esito della consultazione – mentre hanno votato in massa per rimanere nell’Unione europea – Trump usa il “leave” come simbolo della ribellione “al dominio dell’élite”, e nel suo racconto si sovrappongono confusamente parole d’ordine nazionaliste, disgusto per le burocrazie sopranazionali, generica insofferenza per chi controlla i processi della globalizzazione da qualche stanza dei bottoni sulle Alpi svizzere. E’ pur sempre il candidato secondo cui “lo stato-nazione rimane il fondamento della felicità”, quello che non si limita a fare della litigiosa e inconcludente burocrazia di Washington il suo totem polemico, ma punta più in alto, alla superclass globale collegata al potere immateriale della finanza, l’habitat che ha dato origine a una nuova specie, “l’uomo di Davos”, come lo chiamava Samuel Huntington.
Il “populismo isolazionista” che ha dato forza al voto inglese è lo stesso che spinge la corsa di Trump, ha detto Steny Hoyer, numero due dei democratici alla Camera, e dunque “America First” e “Britain First” corrono in parallelo verso la chiusura entro i propri confini. Non stupisce il fatto che, a qualche ora dalla certificazione della vittoria del “leave”, con i mercati nel panico, Trump si sia rallegrato per il crollo della sterlina, “che attirerà più turisti qui a Turnberry”.
E non deve stupire nemmeno il fatto che dopo le brevi dichiarazioni sulla Brexit, il candidato sia tornato al motivo per cui era andato in Scozia, far conoscere le proprietà nella terra natale della madre. Si è addentrato nei dettagli del nuovo campo da golf: le buche nove, dieci e undici sono state ridisegnate, la dieci è diventata un par 5, quest’altra era un par 4 ma adesso “la gente pensa che sia il migliore par 3 del mondo”. L’atteggiamento sprezzante, nimbysta dell’uomo d’affari che imperterrito conduce fino in fondo il suo momento pubblicitario è uno spot perfetto per un candidato che vuole essere eletto come leader del mondo libero per le sue virtù pragmatiche, non per la sua politica “all talk”. Sarebbe stato intimamente antitrmupiano trasformarlo in un comizio puramente politico.
L’uscita del Regno Unito ha anche un chiaro perdente dall’altra parte dell’Atlantico, Barack Obama. La sua sconfitta è proporzionale all’impegno che aveva messo nel sostenere la causa del “remain”, avventurandosi addirittura in un irrituale endorsement pronunciato proprio in Inghilterra . “Il popolo del Regno Unito si è pronunciato, e rispettiamo la sua decisione”, ha detto la Casa Bianca in una nota che ribadisce la “relazione speciale fra Stati Uniti e Regno Unito”, dove la Nato rappresenta per entrambi i paesi la pietra angolare della sicurezza.
Obama magnifica anche il ruolo dell’Unione europea, “partner indispensabile”, e dunque tradisce tutta l’insoddisfazione del presidente, leader che in otto anni di governo ha mostrato spesso prudenza nelle questioni globali, ma non si è mai discostato da una prospettiva internazionalista e multilaterale che poggia sulla solidità delle istituzioni sopranazionali. Con David Cameron, Obama ha stabilito una special relationship al quadrato, cementata da posizioni politiche conciliabili su diversi temi, dalle affinità nello stile personale e di leadership e infine battezzata dalla condivisione di uno stratega elettorale, Jim Messina. La caduta di Cameron pesa, almeno un po’, anche su Obama.
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