L'attacco all'aeroporto
Aumenta il numero dei morti a Istanbul, ma arriva il disgelo con Putin
Roma. Hanno parlato per 45 minuti al telefono il presidente turco Recep Tayyip Erdogan e il suo collega russo Vladimir Putin. La telefonata, avvenuta mercoledì in mattinata, era il primo contatto tra i due capi di stato dallo scorso novembre, quando l’aviazione turca aveva abbattuto un jet russo che volava lungo il confine siriano. I due leader, che da quel momento avevano dato il via a una durissima lotta di parole e sanzioni, avevano iniziato il disgelo diplomatico questa settimana, ma l’attacco di martedì notte all’aeroporto internazionale Atatürk di Istanbul ha reso tutto più veloce. Al termine della telefonata, il Cremlino ha fatto sapere che presto inizieranno i negoziati per ripristinare gli accordi di commercio bilaterale, e ha tolto con effetto immediato il divieto ai turisti russi di visitare la Turchia. Il bilancio dell’attacco è ancora provvisorio, si parla per ora di 41 morti (di cui almeno 13 stranieri) e di più di 230 feriti. E la velocità con cui le squadre di servizio dell’aeroporto hanno ripulito il sangue e sostituito le vetrate infrante, l’ansia di far riprendere i voli e il veto governativo alla diffusione delle immagini più cruente non hanno certo nascosto l’entità di quanto accaduto nel terzo scalo europeo per traffico. Stesso schema – apparentemente perfezionato – degli attacchi di marzo a Bruxelles: tre uomini armati di kalashnikov e cinture esplosive, arrivati in taxi, hanno iniziato uno scontro a fuoco col personale di sicurezza all’ingresso dello scalo, nell’area dove sono presenti i primi metal detector.
Due di essi sono riusciti a proseguire nell’edificio, continuando a sparare e facendosi poi saltare in aria. Il terzo, rimasto fuori, avrebbe svolto il suo compito suicida nel parcheggio di fronte all’ingresso dell’aeroporto. Il primo ministro turco Yildirim ha puntato il dito contro lo Stato islamico. In un messaggio alla nazione, il presidente Erdogan ha parlato di un attacco che “mira a produrre propaganda contro il nostro paese col sangue degli innocenti” e ha evidenziato come “le bombe di Istanbul sarebbero potute esplodere in qualsiasi aeroporto del mondo”, benché alcune indiscrezioni mediatiche abbiano segnalato che venti giorni fa l’intelligence turca aveva avvertito le autorità della possibilità di un attacco proprio all’aeroporto. L’attacco è solo l’ultimo di una serie che ha insanguinato la Turchia negli ultimi due anni, una serie che include l’attentato più sanguinoso mai avvenuto nel paese, costato la vita a più di 100 persone ad Ankara lo scorso ottobre. Ma, forse per la prima volta, le autorità turche hanno subito individuato la responsabilità dello Stato islamico, anziché flirtare almeno temporaneamente con l’ipotesi che i responsabili fossero i militanti curdi del Pkk.
A questa considerazione va aggiunto il timing dell’attentato, avvenuto in concomitanza con le prime fasi formali di un riavvicinamento diplomatico che oltre che con la Russia è in corso anche con Israele e l’Egitto, resosi necessario dopo che la politica mediorientale della Turchia, fatta anche di eccessivi ammiccamenti ai jihadisti più radicali in funzione anti Assad, aveva ormai spinto il paese in un pericoloso vicolo cieco. La Turchia – più per pragmatismo che per ideali – sta abbandonando sia le zone d’ombra di contiguità allo Stato islamico e ad altre formazioni jihadiste sia il sostegno all’islam politico sunnita nella regione. La recente defenestrazione dell’ex premier Davutoglu, principale fautore di questa politica d’ingaggio, e la sua sostituzione con Yildirim andrebbero proprio in questo senso, così come gli 11.750 anni di prigione chiesti il 28 giugno dal procuratore di Ankara contro i 36 sospettati islamisti per l’attentato di ottobre e la decisione del governo di permettere agli alleati della Nato di compiere più voli di pattugliamento al confine turco-siriano contro lo Stato islamico.
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