L'infondata indignazione sulla "schedatura" dei meridionali a Londra
Altro che Brexit. Le diciture "italiano napoletano" e "italiano siciliano" esistono da anni nel Regno Unito. Furono introdotte dai fautori del politicamente corretto per promuovere la diversità. Ecco la storia di un cortocircuito ideologico e mediatico – di Stefano Basilico
Londra. Schedati, ghettizzati, emarginati, discriminati. E’ dura la vita degli italiani nel Regno Unito post Brexit, secondo alcuni giornali italiani. A scatenare l’indignazione quotidiana sono i nuovi moduli per l’iscrizione alle scuole, con le linee guida del ministero dell’Istruzione di Sua Maestà per gli allievi con una lingua madre diversa dall’inglese. Sotto la dicitura “Italiano” ci sono infatti “Italiano altro”; “Italiano napoletano” e “Italiano siciliano”. Scatta la polemica sui social e l’ambasciatore Terracciano, che probabilmente preferirebbe fare altro, scrive al Foreign Office. “Iniziative locali – rassicura però i cronisti italiani il diplomatico (nato a Napoli) che ieri ha incassato delle scuse da Londra – motivate probabilmente dall’intenzione d’identificare inesistenti esigenze linguistiche particolari e garantire un ipotetico sostegno”. Buone intenzioni però “involontariamente discriminatorie, oltre che offensive per i meridionali”.
Non si saranno offesi gli orgogliosi sardi, di cui nessun commentatore indignato si è accorto, che hanno una categoria linguistica a parte, diversa dall’italiano. Come non si sono offesi arabi, curdi, cornish, scozzesi, parlanti delle varie versioni del gaelico, tutti con categorie differenti. E dire che napoletani e siciliani hanno sempre rivendicato con fierezza la diversità delle proprie lingue, riconosciute dall’Unesco e dal codice Iso 639-3 del paese di Sua Maestà.
Solo il 38,8 per cento degli abitanti delle isole e del sud, secondo l’Istat, parla prevalentemente italiano in casa, preferendovi il dialetto. Sarà retrogrado o moderno, razzista o realista, prendere atto di questa situazione e offrire categorie più consone alla realtà, senza peraltro impedire a un napoletano o a un siciliano di affermare che parlano italiano?
Al bando queste sottigliezze linguistiche e statistiche, la stampa nostrana ha fatto partire la macchina dell’indignazione e deve punire chi ha scelto di abbandonare la civiltà continentale. Inutile far notare che gli stessi codici linguistici erano in uso ben prima del referendum dello scorso giugno sulla Brexit, già presenti nelle linee guida ministeriali per il censimento scolastico del 2014 e persino in un documento della contea del North Yorkshire del 2006, in pieno New Labour blairiano, quando le porte all’immigrazione erano spalancate.
I background etnici e linguistici nel Regno Unito vengono introdotti con il censimento del 1991. Non per schedare e discriminare, ma per censire e tutelare la diversità. I questionari sono anonimi e vengono richiesti prima di firmare atti amministrativi, iscriversi a scuola o firmare un contratto di lavoro. Vengono richieste etnia, preferenze sessuali, religione e in alcuni casi la lingua madre e si può decidere di non rispondere. I sondaggi vengono poi utilizzati nei database, anche per evidenziare squilibri. A marzo, per esempio, la Commissione affari interni di Westminster ha evidenziato uno sbilanciamento all’interno della polizia a svantaggio delle minoranze etniche: sono solo il 5,5 per cento a vestire la divisa, eppure rappresentano il 14 per cento della popolazione. Un problema che non sarebbe mai stato evidenziato senza i moduli sul background etnico, hanno sempre detto i sostenitori della “identificazione” etnico-linguistica.
A colpire della vicenda è un doppio paradosso. Da un lato il fatto che napoletani e siciliani (i sardi non sono stati menzionati dall’ambasciata né sui social, quindi ne deduciamo siano più inorgogliti che offesi) si siano adirati per quello che è il riconoscimento di una dignità linguistica superiore. Ma il paradosso maggiore è l’attacco politically correct alla xenofobia post Brexit che ignora le origini e il vero scopo di questi moduli: non la discriminazione, ma al contrario una forma estrema di tutela della diversità che proprio i più politicamente corretti avevano richiesto fino a qualche mese fa.
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