Google ha un'anima: si chiama Giorgia Abeltino
Basta un click e da Nuova Delhi, seduti comodamente sul vostro divano, potete entrare al Museo degli Uffizi, vagare lungo il corridoio vasariano, percorrere le altre sale e fermarvi davanti alla “Primavera” di Botticelli. Un altro click, e anche se adesso vi trovate a Ulan Bator potete amplificare all’infinito l’immagine che riproduce il capolavoro del Rinascimento fiorentino, e studiare i fili rossi dei capelli, la tinta dell’incarnato, addirittura entrare dentro l’iride della Primavera, e scoprire le piccole pennellatine di bianco che rappresentano il riflesso, e il nero del kajal che rientra nella palpebra superiore e continua, come prescrivono oggi gli ultimi dettami del maquillage, in un’ondina nera sul margine esterno dell’occhio. Siete stanchi di musei e di capolavori dell’arte? Da Cochabamba, in Bolivia, potete entrare dentro il tornio calabrese di un ceramista di Seminara, e scoprirete tutti i segreti dei Babbaluti, delle Quartare e delle mascherine apotropaiche colorate che da tremila anni fungono da protezione contro il malocchio. Avete fame? Siete a Toronto, al Rosedale Golf Club, affetti da improvvisa nostalgia per la salama da sugo? Cliccando sempre sulla stessa app, Arts and Culture, scoprirete l’intera storia di quella prelibatezza ferrarese apprezzato alla corte degli Estensi, oltreché gli ingredienti e la ricetta originale…
Miracolo, meraviglia: al tempo della globalizzazione, il mondo virtuale annulla le distanze spazio-temporali, dilata gli orizzonti, convoglia esperienze ai limiti della fantascienza e un motore di ricerca come Google, che produce profitti stratosferici, e viene accusato di abuso di posizione dominante, investe straordinarie energie e risorse per mettere a disposizione di miliardi di persone i capolavori dell’arte e della cultura, il segreto delle tradizioni, in una parola i tesori della civiltà. Il Google Cultural Institute è nato circa sei anni fa per impulso di un ingegnere indiano trentacinquenne e mingherlino, Amit Sood, che coltivava il sogno di offrire in rete un accesso universale al bello, all’arte, alla cultura. All’inizio, gli ingegneri di Google gli hanno dedicato solo il 20 per cento del loro tempo di lavoro. In pochi anni, il gigapixel, tecnologia d’avanguardia nella riproduzione di immagini, ha permesso di restituire in versione digitale luoghi, oggetti, opere, capolavori dell’arte e dell’artigianato, di stoccare le immagine e di metterle, gratuitamente, a disposizione di miliardi di utenti. Nel 2011 erano solo 17 i musei che avevano aperto le porte ai tecnici di Google e alla loro telecamera su un trabiccolo itinerante come quello usato per la streetview, che serviva per la ripresa delle immagini dei capolavori conservati nelle loro sale.
Giorgia Abeltino (foto via YouTube)
Fra questi musei c’erano anche gli Uffizi, diretti all’epoca dalla grande Cristina Acidini. Cinque anni dopo, i musei accessibili attraverso la piattaforma di Google sono ormai 1.200, e in continuo aumento. Grazie al circuito virtuale, l’afflusso reale dei visitatori ai musei, anziché diminuire, è sensibilmente aumentato, con conseguente vantaggio per il contesto, il territorio, e la miriade di piccoli musei sconosciuti. Infatti, diversamente da quanto inizialmente si temeva, si è scoperto che chi, per esempio, guarda su Google la riproduzione della mietitura di Bruegel, non è che poi rinunci a visitare di persona il Metropolitan Museum of Art, anzi, pare che si precipiti al museo newyorkese, restando incollato per ore a studiare quel capolavoro che ormai per lui non ha più segreti. “Vede questi puntini colorati?”, domanda la responsabile dei rapporti istituzionali per il Google Cultural Institute mostrandomi lo schermo del suo pc. “Sono contadini che giocano al cappone. Guardi bene cosa succede: grazie al gigapixel oggi possiamo scoprire un dettaglio curioso: il cappone è appeso a un’asta, e il contadino che, lanciando una mazza, riesce a farlo cadere per terra, lo vince. E guardi ancora il laghetto lì a sinistra con le bagnanti. Vede il culetto che esce fuori dall’acqua? Guardi bene, se clicca ancora per allargare l’immagine scoprirà che sono suore, infatti per terra ci sono le tonache e il velo bianco… e chissà come avrà fatto Bruegel a dipingere questi dettagli infinitesimali”. Così la tecnologia cambia il nostro approccio all’arte e al patrimonio artistico. Più che una metamorfosi è una rivoluzione che permette di percepire dettagli minuscoli e di scoprire altrimenti impercettibili. E se la testa di questa rivoluzione è indiana, il motore è italiano, anzi napoletano.
Giorgia Abeltino, infatti, è una “napoletana doc”, come lei stessa si definisce. Esperta di antitrust, un gran bel curriculum alle spalle, è una vulcanica quarantenne di sicura bellezza, nata e cresciuta a Napoli guardando al Vesuvio, dalla Riviera di Chiaia. Lavora in Google dal 2010, dividendosi ormai tra Parigi, sede del Laboratorio culturale, e il resto del mondo. Siamo andati a trovarla nel suo ufficio romano, al quarto piano di un edificio tutto vetro e acciaio del Quartiere Ludovisi, pieno di enormi peluche colorati, con tappeti verde prato e sedioline ergonomiche, perché da Google l’ambiente di lavoro dev’essere ludico per facilitare l’ideazione a getto continuo e il gioco di squadra. Conoscendola, mai più lampante è parsa la smentita dell’eterno lamento del sud, dell’ignavia del gagà napoletano, dei tanti luoghi comuni sulla zavorra culturale degli studenti meridionali e sulla fuga dei cervelli che affliggono il nostro capitale umano. Della napoletana doc Giorgia Abeltino sembra avere quasi tutto: la simpatia, la comunicativa travolgente, il sorriso contagioso, l’intelligenza pronta di un popolo che nella sua storia ne ha visti passare molti altri… Ma a sentire la sua storia è soprattutto un prodotto compiuto del mondo globale. Nulla infatti destinava questa bella ragazza di Chiaia a una carriera tanto fenomenale: non l’estrazione – famiglia priva di particolari propensioni all’arte – non le frequentazioni – niente cenacoli di giureconsulti illustri intorno a lei – e forse nemmeno l’intenzione.
Figlia unica di genitori normalissimi – padre impiegato al comune, madre addetta agli scambi internazionali di un’università privata con i paesi in via di sviluppo – nonostante gli occhi azzurri, i capelli lisci e ramati, è una napoletana purosangue, non di madre lingua inglese e, ci tiene a dirlo, non sembra possedere nemmeno lontanamente un gene anglonormanno, nonostante la biondissima genitrice. E mentre confessa tutto ciò, con lievissima inflessione partenopea, si capisce che la cosa rappresenti per lei un non piccolo motivo di orgoglio. In pochi anni, è stata propulsa ai vertici di un’azienda strategica nell’innovazione tecnologica e nella trasformazioni delle nostre abitudini. Sarà stato il caso, un regalo della fortuna o l’effetto di un’ambizione feroce, ma questo suo parcours sans fautes è innanzitutto il risultato di studi severi, che le hanno assicurato una formazione eccellente non a Oxford o alla London School of Economics, non a Chicago e nemmeno al Mit di Boston, ma nel cuore di Napoli, sui banchi d’una gloriosa università statale, fondata nel XIII secolo per creare i funzionari del più antico stato d’Europa dall’imperatore svevo Federico II, di cui oggi porta il nome. Iscritta alla facoltà di Giurisprudenza, Giorgia Abeltino si laurea nel 1998 dopo appena tre anni e mezzo di corso, con una tesi sperimentale in Diritto comunitario antitrust, relatore il prof. Paolo Tesauro, ordinario di Diritto costituzionale e cugino del futuro presidente dell’Antitrust e della Corte costituzionale.
Giorgia Abeltino (foto via YouTube)
Di sé, sempre modestamente, Giorgia Abeltino dice che era una ragazza normale, cresciuta al Sacro Cuore, privatissimo liceo del Vomero. Racconta che non aveva grilli per la testa, salvo la passione per l’arte e la cultura alimentata dai mille tesori della sua città natale e dalla scoperta quotidiana della stratificazione millenaria di un patrimonio inestimabile. Ammette però di essere sempre stata molto curiosa e desiderosa di viaggiare per conoscere il mondo e le altre culture, come se questa fosse la vera causa o la ragione ultima della piega che ha preso la sua carriera. Dove la passione non arriva, entra in gioco la formazione. E la sua è quella di un’esperta di antitrust che si trova a lavorare sul diritto comunitario europeo negli anni in cui si inizia a definire la nuova regolamentazione di un mercato libero comune. La scoperta di una materia così specialistica, a quanto lei racconta, avviene per caso, entrando un giorno nella libreria Guida in piazza Dante: “Vidi un libretto di Giuliano Amato, all’epoca presidente dell’Antitrust: ricordo ancora la copertina blu con una freccia rossa. ‘Il potere e l’antitrust’, mi chiedo che cos’è. Lo compro, scopro che mi interessa e decido di approfondire”.
La laurea è solo la prima tappa. Per nutrire la sua curiosità per le culture del mondo, la neodottoressa avrebbe lavorato persino per Lonely Planet. E invece prevale la ragione, e dopo un anno a Parigi per imparare il francese e ottenere un master alla Sorbona in Diritto comunitario, approda a Bruges al Collegio d’Europa, e da lì a Bruxelles nella succursale dello Studio Bonelli Erede Pappalardo. Sono gli anni in cui Romani Prodi è presidente della Commissione europea e Mario Monti commissario alla Concorrenza. L’Unione europea è alle prese con la riforma del diritto antitrust e la Commissione adotta una serie di norme di attuazione e interpretazione al famoso regolamento1/2003. Un invito a nozze per la giovane napoletana, che dopo tre anni lascia la professione liberale per entrare alla Commissione europea con un contratto di ausiliario a tempo determinato presso la Direzione generale della Concorrenza. Nel frattempo, nutre la sua vena dromotica con viaggi in Papuasia, in Nuova Guinea, nel Sud Est Asiatico, e un’attenzione sempre viva per l’arte e l’antropologia delle culture del mondo. Il ritorno al tran tran quotidiano nella grigia Bruxelles non doveva essere facile.
Sicché, appena viene a sapere della fusione di Stream e Telepiù, che darà vita a Sky Italia, si candida per gli uffici legali della nuova società e rientra a Roma. Per quattro anni segue la regolamentazione europea, studia le normative, sforna pareri. Ma intanto scalpita. Curiosità e voglia di emergere la portano a formulare una proposta alla casa madre, Newscorporation, che controlla Sky: “In America avete tante di quelle aziende che non hanno un ufficio per i rapporti con le istituzioni europee. Io per voi posso fare questo lavoro”. Detto, fatto. Si trasferisce a New York per seguire i rapporti con l’Europa per tutte le aziende del gruppo e in quella veste finisce a lavorare per MySpace, una delle prime piattaforme digitali per la condivisione della musica sul web. La fortuna aiuta gli audaci. E la trentenne napoletana, entrata in contatto con Google, mira a farsi assumere da quell’azienda globale, nel dipartimento Affari istituzionali, e superate le forche caudine di una serie di interviste e colloqui finisce a lavorare a Roma.
“Il mio lavoro consiste nel raccontare Google e nello spiegare la funzione del digitale e le potenzialità del nuovo mercato digitale agli interlocutori istituzionali, governo, parlamento, ministeri, autorità indipendenti. Una missione pedagogica applicata a una tecnologia in fase di tumultuoso sviluppo”. L’empatia, la determinazione, la curiosità, la passione per la cultura, fanno il resto: l’esperta in antitrust e diritto comunitario, a poco a poco, inizia a collaborare con l’inventore indiano del Cultural Institute, Amit Sood. Puntando sui tesori del Belpaese, sulle mille manifatture, sull’artigianato di eccellenza, sui prodotti della gastronomia, sviluppa una sua idea. Associa i ministeri dell’Agricolutura e dello Sviluppo economico, le camere di commercio, e lancia un progetto sul made in Italy, centrato sui cibi doc e l’artigianato di qualità. Sono decine, centinaia, migliaia di aziende, imprese e produttori ai quali Google offre una piattaforma universale che irradi i loro saperi, le loro tecniche, facendoli conoscere a una platea di miliardi di potenziali consumatori. “Tutto questo avviene a titolo gratuito”, insiste Giorgia Abeltino. “La filosofia del Google Cultural Institute è il non profit: non ha scopi di lucro, ma persegue l’idea di democratizzare l’accesso alla cultura in qualsiasi luogo a prescindere dall’appartenenza culturale. I nostri ingegneri si limitano a lavorare sulla tecnologia, ma i contenuti, la loro gestione e i relativi diritti restano in mano ai fornitori, imprese, aziende o musei che siano”.
Dalle manifatture ai musei il passaggio avviene in modo naturale, anche se non senza difficoltà. ”All’inizio, non è stato facile convincere i musei ad aprirsi al digitale. Ma col tempo siamo riusciti a superare la diffidenza, dimostrando l’enorme vantaggio di una tecnologia che amplifica all’ennesima potenza la fruizione e la valorizzazione del patrimonio”. Oggi Google non ha nemmeno più bisogno di mandare i suoi tecnici in giro per il mondo a riprendere nei musei le immagini dei capolavori. Mette direttamente a disposizione l’Artcamera, un congegno ben più maneggevole del trabiccolo iniziale, che consente di realizzare in autonomia le riprese da diffondere poi attraverso la piattaforma digitale. “Lo spettro delle forme di espressione artistica negli anni si è notevolmente allargato”, aggiunge con orgoglio Giorgia Abeltino, citando la street art, l’arte dello spettacolo, il teatro, la storia naturale e ora anche gli archivi, a cominciare da quelli di Nelson Mandela con tutti i manoscritti originali. “Inoltre, i googlers hanno sviluppato nuove tecnologie per l’immersione totale, come questa scatoletta di cartone”, aggiunge, porgendomi una scatoletta di cartone con due lenti spesse come fondi di bottiglia. “Guardi qui, basta scaricare la nostra applicazione sullo smartphone, infilare il telefono sull’aletta, ed è fatta”. Inforco la scatoletta, giro la testa, ed eccomi catapultata come d’incanto nella Valle dei Templi, che mi appare davanti agli occhi in terza dimensione, con l’azzurro del Mediterraneo sullo sfondo, i capitelli dorici a portata di mano, e la conferma che ormai basta solo un clic per guardare il passato con occhi nuovi e ridare vita al patrimonio sentendolo finalmente nostro, come mai prima.
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