L'immutabile George Martin che ha permesso ai Beatles di cambiare

Antonio Gurrado
È stata una metamorfosi inarrestabile quella che ha fatto diventare decine di persone diverse nel breve volgere di otto anni i componenti della band di Liverpool, mentre colui che li ha inventati non è cambiato dal 1962 in eterno.

Cinque anni fa mi ero sporto dal parapetto dello Sheldonian Theatre di Oxford augurandomi che George Martin notasse il mio timido, familiare ma niente affatto irriverente cenno di saluto mentre entrava a ricevere il dottorato honoris causa in musicologia. Speravo che guardasse verso l’alto per stabilire un fugace contatto fra la mia esistenza concreta e quella impalpabile dei Beatles, favoleggiata in mille riascolti ma esaurita ben prima che nascessi con pessimo tempismo: il modo in cui era rimasto uguale alle vecchie foto garantiva continuità fra i loro tempi e i miei, che si sarebbero rinsaldati in un suo sguardo verso le balaustre.

 

Oggi, sfogliando più malinconicamente le immagini dei Beatles in volumi e cofanetti, lo scorgo sempre identico mentre loro hanno la zazzera e la cravatta, le divise da cantante scemo per adolescenti, i basettoni su camicie talmente spensierate da sembrare felici, i baffi che contrastano le uniformi psichedeliche, le chiome che atterrano su striminziti completi da dandy, i barboni che spuntano sotto tetri cappellacci da quacchero, in un caso estremo addirittura la pelliccia. È una metamorfosi inarrestabile che li fa diventare decine di persone diverse nel breve volgere di otto anni mentre George Martin, che li ha inventati, non cambia dal 1962 in eterno. È stata la sua pertinace immutabilità a farli sentire sicuri e liberi di variare, di evolversi, di sperimentare, di poter tramontare o anche morire senza temere la sparizione. Se solo mi avesse guardato, sarei invecchiato di meno.

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