L'algoritmo di Google e il nostro essere imperfetti
Volevo scrivere degli struzzi che allevano elefanti orfani in Kenya, oppure del gatto che risulta regolarmente iscritto a un liceo in California, ma mi sono reso conto che l’animale più strambo del mondo è un bipede implume che talvolta è convinto di non avere l’anima e talvolta si persuade che ce l’abbiano gli oggetti. Un esemplare di uomo ha accusato Google di essere razzista perché, inserendo “unprofessional hairstyles” nella ricerca di immagini, sono risultate solo foto di riccissime donne nere; mentre, richiesto di donne pettinate correttamente, l’algoritmo ha restituito liscissime donne bianche. A parziale scusante dell’algoritmo bisogna riconoscere che la ricerca di immagini su Google si basa soprattutto sulle parole a corredo delle figure, secondo criteri quantitativi privi di sottile discernimento: se sotto la foto dell’imperatore del Giappone ci fosse sempre la didascalia “quest’uomo non indossa la parrucca di Dolce Candy”, la ricerca “uomo parrucca Dolce Candy” potrebbe restituire la foto dell’imperatore del Giappone.
Ciò non implica che a Mountain View patrocinino l’idea che Akihito vada in giro coi boccoli biondi. Se volessimo prendere le parti dell’algoritmo, potremmo spingerci a sostenere che esso, essendo inanimato, non è capace dei profondi sentimenti negativi che caratterizzano la nostra essenza di uomini imperfetti, disperati o cattivi. Gli altri undicimila esemplari della nostra specie che hanno pavlovianamente ritwittato la vacua rivendicazione antirazzista non avranno considerato questo: chi ritiene che un algoritmo ragioni come un uomo, di solito pretende anche che l’uomo ragioni come un algoritmo.
Il Foglio sportivo - in corpore sano