Le giuste domande da fare per capire che la religione non è un sentimento, né un parere
Pare che la polizia britannica abbia scovato un metodo infallibile per selezionare i richiedenti asilo per motivi religiosi, verificando se il loro cristianesimo sia sincero oppure di facciata. Interrogarli. Per capire se uno è cristiano basta domandargli quando cade la Pentecoste, oppure chi è Nicodemo, o – mettiamola sul difficile – chi ha scritto gli Atti degli Apostoli. Se risponde esattamente, sta davvero venendo perseguitato per la propria fede, quindi ha diritto d'asilo nel Regno Unito; se sbaglia, probabilmente si è intruppato inscenando la persecuzione come scorciatoia per l'espatrio. Politici di ogni colore sono insorti, criticando formalmente “il fraintendimento della religione” che emerge da “questi giudizi troppo semplicistici” che ignorano “la natura intrinsecamente intima e personale della fede”. Hanno torto: sbrigativa quantunque, si tratta di una soluzione pragmatica dalle ottime ricadute.
Serve a ricordare che la religione non è né un parere né un sentimento ma è quod religat, ossia ciò che da millenni lega gli individui in società. Altro che natura intrinsecamente intima. Inoltre, aiuta a tornare ai tempi in cui il catechismo veniva imparato a domande e risposte (“Cos'è Dio?” “Dio è l'Essere perfettissimo”) onde rammentarsi che la fede è continua ricerca di interrogativi da tacitare, che lo studio la facilita, e che per praticarla sensatamente bisogna essere almeno in due. Altro che natura intrinsecamente personale. Infine, un rapido giro d'interrogazioni casa per casa sarebbe una maniera efficace per conteggiare con esattezza quante decine di cristiani rimangano ancora in Europa.
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