Cosa c'è dietro gli alti ideali che hanno spinto Oxford a schierarsi contro la Brexit
“Oxford è, senza dubbio, una delle città al mondo in cui si lavora di meno, e vi è molto più decisivo l'esserci anziché il fare o anche l'agire”. Sul Corriere Beppe Severgnini parte dalla celebre definizione che Javier Marías cesellò dopo avere trascorso tre anni come fellow dell'All Souls College e inserì in “Tutte le anime” (Einaudi, lettura obbligatoria); la rende cornice ideale per la sua inchiesta sulla Brexit e per le sue domande scomode (“Come voterebbe Bilbo Baggins giovedì?”) rivolte a docenti dell'università, che in aprile s'è ufficialmente espressa contro la Brexit. Come mai? Alti ideali: qualcuno non vuole rassegnarsi a lasciare la Gran Bretagna in mano ai nazionalisti, qualcun altro fa notare che la sanità pubblica britannica si regge sugli stranieri, uno ricorda che il risultato del referendum non è vincolante per il Parlamento, un altro teme che venga limitata la libera circolazione di studenti e ricercatori. Si potrebbe obiettare che andare a Oxford a chiedere lumi sulla Brexit è come chiedere pareri su Massimo Bottura a Tor Bella Monaca, ma ecco all'improvviso la verità ergersi suprema: “Nel 2014-'15 sono arrivati 66 milioni di sterline di fondi di ricerca europei; se usciamo, bye bye”. Adesso si capisce tutto, tranne il motivo per cui Severgnini non abbia aperto il pezzo con quest'altra frase del romanzo di Javier Marías: “La sola cosa che interessa davvero nella città di Oxford è il denaro, seguito a una certa distanza dall'informazione, che può sempre essere un mezzo per ottenere denaro”.
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