Lo scrittore modenese che sembra Beckett, Baudelaire, Mann, Cioran e Galsworthy tutti assieme
Se fosse di Dublino lo paragonerei a Beckett, perché in “Buchi” (Feltrinelli) scrive: “Basta adesso, finito tutto, tutto finisce sempre. Non smette mai di finire. Invece poi non finito. Non finisce mai niente”. Se fosse di Parigi lo paragonerei a Baudelaire, perché fa gravare “un da piangere pazzesco” su ottanta pagine intere senza concedere una riga alla lagna compiaciuta e sciatta. Se fosse di Lubecca lo paragonerei a Thomas Mann, perché, così come il piccolo Hanno Buddenbrook un giorno tirò una riga sotto il proprio albero genealogico, lui conclude il resoconto delle morti di genitori e vicini e fantastiche zie con l'immagine del buco in cui tutti finiamo e dentro il quale non vede niente: “Chiusa la storia. Chiuso tutto”. Se fosse transilvano lo paragonerei a Emil Cioran, perché su una pagina bianca è in grado di iniziare lapidario: “Quella voglia di essere già morti, anche oggi”.
Se fosse del Surrey, lo paragonerei a John Galsworthy, per quanto anziché la saga dei Forsyte abbia scritto la saga del tracantone: il mobile ingombrante che in italiano corretto si chiamerebbe angoliera, e che in famiglia passa di casa in casa e di generazione in generazione fino a che arriva una casa, o una generazione, che non ha più spazio e così, poiché più le case si restringono più le generazioni si scollano, finisce svenduto o regalato ad amici, il tracantone. Invece per fortuna Ugo Cornia è modenese, quindi rifugge dai paragoni immodesti; però magari può fargli piacere sapere che il suo ultimo libro sembra germogliato da un verso di Augusto Vandelli, che cent'anni fa, passeggiando per la Modena dei cari scomparsi, considerò: “A pèr d'ésser sepolt in-t'un sperfand” - sembra di essere sepolti in uno sprofondo, un abisso, un buco.
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