A forza di guardare noi stessi, non vediamo più la realtà ma solo i nostri psicofarmaci
Cymbalta, cioè duloxetina, Zyprexa, cioè olanzapina; e poi paroxetina, Seropram (citalopram) in gocce, Tavor (lorazepram) orosolubile, Lyrica (pregabalin) e ovviamente Xanax, con ricette fedelmente riprodotte, prima e dopo i pasti, al mattino o alla sera, verticali o da sdraiati. Io piuttosto che prendere uno psicofarmaco mi faccio impalare; per questo ho letto con sgomento “L'intelligenza è un disturbo mentale” di Paolo Bianchi (Cairo), romanzo onusto di questi nomi turcheschi fra cui ho cercato di orientarmi con la sua stessa disinvoltura, la sua stessa esattezza. Ma, quando s'è venuti all'ambientazione, ho scoperto che la voce narrante si muoveva fra una Città Grande, una Città Piccola e una Città Mediogrande, oltre ad andare in vacanza in una città della Bretagna. Subito mi sono domandato: ma quale? Rennes? Saint-Malo? E se la Città Grande fosse Milano, la Città Piccola potrebbe essere Vercelli? Non sarà forse Biella, o Novara magari? O sopra i centomila abitanti vanno considerate Città Mediograndi?
Tanta indeterminatezza mi ha sconcertato al pari dell'estrema precisione sui farmaci. Mi ha fatto capire che non si tratta di diversi livelli di realismo narrativo bensì della presa di coscienza di un dato di fatto: i disturbi mentali nei quali c'inabissiamo, più o meno intelligenti, sono il frutto del contrasto fra l'estrema attenzione alla nostra interiorità e la conseguente, complementare distrazione su ciò che ci circonda. Quel diffuso senso di “rabbia, impotenza, non farcela più”, di cui Paolo Bianchi parla come cosa normale, è conseguenza del microscopio che puntiamo su noi stessi; esattamente come quelli che vanno in tram ipnotizzati dallo smartphone, sbagliano fermata e quando scendono non sanno più dove sono, ma solamente chi sono.
Il Foglio sportivo - in corpore sano