Il burkini e la giusta distanza tra dogma e costrizione
Sotto il vestito niente? “Ho inventato il burkini per dare libertà alle donne, non per toglierla”, ha scritto sul Guardian Aheda Zanetti, specificando che la tenuta non cela nessun precetto islamico in quanto genericamente intesa per “persone pudiche, o col cancro alla pelle, o neomadri che non vogliono indossare il bikini”. Per Vito Mancuso invece sotto il vestito c'è il maschilismo. Scorge infatti una connessione fra islam e cristianesimo poiché per San Paolo, tanto quanto per il Corano, la donna deve coprirsi e sottomettersi: in entrambe le religioni “l'abbigliamento femminile comandato presuppone una precisa concezione del rapporto uomo-donna all'insegna della subordinazione”.
La stessa coincidenza ha colpito chi – come l'imam di Firenze Izzedin Elzir – ha legittimamente fatto notare che non ci si sognerebbe mai di multare o allontanare o costringere a spogliarsi una suora in spiaggia. Sono quindi andato a chiedere a una monaca se al mare sarebbe effettivamente costretta a indossare l'abito, e mi ha risposto sorridendo che lei ha scelto di essere costretta. Allora ho ripreso Repubblica, trovando in Mancuso lo stesso distinguo: le suore, ammette, hanno “liberamente scelto di vivere in povertà, castità e obbedienza” mentre “l'islam, che non ha suore, in un certo senso tende a rendere un po' suore tutte le donne che vi aderiscono”. Se ho capito bene significa che, rispetto a un'indicazione contenuta nel testo sacro ma che non costituisce dogma teologico, il Cristianesimo ha maturato una distanza e l'islam invece no. Ne deduco che tutto questo dibattito sulla lana caprina sia finalizzato a rimuovere l'imbarazzante scoperta che, se sotto il vestito c'è un'altra religione, le cose cambiano un bel po'.
Il Foglio sportivo - in corpore sano