Quello che non convince di Trump: la fede nel pensiero positivo
Ci sono un cattolico, due anglicani, quattro battisti, undici episcopali, quattro metodisti, sei presbiteriani, due quaccheri... Sembra l'inizio di una barzelletta piuttosto affollata ma è il ruolino della presidenza degli Stati Uniti, cui magari fra due mesi esatti si aggiungerà una fede inedita. Apprendo infatti dall'ottimo “La febbre di Trump” di Mattia Ferraresi (Marsilio) che il candidato repubblicano ha per libro preferito la Bibbia, ex aequo con il proprio “L'arte di fare affari”; singolare accostamento da cui emerge una religione balzana fondata su un testo sacro del 1953, “Il potere del pensiero positivo” del reverendo Norman Vincent Peale.
Peale – orchestratore dell'attacco anticattolico a Kennedy – fu originariamente metodista ma poi passò alla chiesa riformata olandese fondando, con un dottore di stretta osservanza freudiana, una “clinica religio-psichiatrica” sulla Quinta Avenue. Così finalmente ho capito cosa non mi convinca di Trump; non i muri né i capelli né i debiti né la grammatica intermittente. Non mi convince perché delle millanta sette protestanti che si sono alternate alla Casa Bianca, e di cui statisticamente ne sorge una nuova ogni dieci ore e mezza, lui ha scelto la più ombelicale e idiotica: il pensiero positivo, che confonde la fede con la fiducia. Se avesse riletto la Bibbia più volte di “L'arte di fare affari”, Trump avrebbe notato che Gesù (in Giovanni 15, 5) lascia disinvoltamente cadere la notizia che senza di lui non possiamo far nulla; avrebbe capito che chi crede in Dio spesso si rivela capace di tutto, in positivo, mentre chi crede in se stesso si rivela sempre capace di tutto, in negativo.
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