Cosa rende gli scienziati più credibili dei romanzieri?
Come nascono i santini di Astrosamantha e Veronesi spiegato dalla storia del chimico Gilbert Newton Lewis
Il mio problema con la scienza è che non riesco a praticare la sospensione dell'incredulità. C'è chi ignora i romanzi perché fatica a fidarsi dell'inverosimiglianza dei personaggi, ci sono io che ignoro la chimica perché fatico a fidarmi dell'inverosimiglianza degli elettroni. Ma fin qui è un mio limite; i guai sorgono quando la scienza si erge a misura dell'etica. Gli scienziati detengono un sapere tecnico, coerente ma iniziatico; poiché questo sapere è volto al beneficio del genere umano, ne deducono che il beneficio del genere umano coincida col loro sapere tecnico e, detenendolo in modo esclusivo, ambiscono a farsi arbitri del bene e del male. Il popolo ci casca, crede che i ricercatori siano un modello etico e così proliferano santini da Astrosamantha a Veronesi.
C'è voluto un chimico romanziere, Piersandro Pallavicini, per dirozzarmi: dal suo “La chimica della bellezza” (Feltrinelli) ho appreso la storia di Gilbert Newton Lewis, che dal 1922 alla morte è stato candidato al Nobel per la Chimica in ragione di scoperte avanti di decenni rispetto ai colleghi. Lewis non ha mai vinto perché sulle prime non si era capito che le sue idee fossero giuste; poi perché, permaloso, s'era inimicato l'American Chemical Society che aveva osato respingergli un articolo; poi perché, paranoico, aveva sprecato un anno a cercare errori nel manuale di chimica teorica del rivale Walther Nernst; poi perché in un saggio aveva criticato Svante Arrhenius e allora questi aveva presentato al comitato del Nobel un giudizio su Lewis pieno di grossolane menzogne; infine perché fu osteggiato dagli allievi dei suoi nemici, troppo pavidi per riconoscere la grandezza di Lewis a discapito dei propri protettori. Questi sono gli scienziati: cosa dovrebbe renderli più credibili di un romanziere? O di un prete?