Fabrizia Di Lorenzo e gli altri. Cosa ci svelano le nostre lacrime per le tragedie collettive
Le lacrime che versiamo guardando le foto di persone che non conoscevamo, guardando occhi e sorrisi a cui avremmo potuto voler bene, segnano forse il nostro improvviso ricordarci della Storia con l'iniziale maiuscola
Cosa ci sconvolge delle tragedie individuali racchiuse in quelle collettive? Perché le piccole vite finite nei grandi attentati ci colpiscono a una profondità più incontrollabile rispetto al timore per le azioni ostili su vasta scala? Le lacrime che versiamo guardando le foto di persone che non conoscevamo, guardando occhi e sorrisi a cui avremmo potuto voler bene, segnano forse il nostro improvviso ricordarci della Storia con l'iniziale maiuscola. Nel suo nuovo romanzo (“Dove la storia finisce”, Mondadori) Alessandro Piperno scrive che dopo la Seconda guerra mondiale le generazioni si sono avvicendate dimenticando che “la storia è sangue, follia e sopraffazione”, mentre solo con la routine del terrorismo internazionale ci siamo accorti che “la piccola storia di ciascuno finisce proprio dove la Storia riprende a correre”. È vero.
Quando un grumo ci secca la gola nel momento in cui capiamo di avere perso per sempre una solare Fabrizia Di Lorenzo, o un giovanotto promettente e impavido, o un padre che ha fatto scudo alla propria famiglia o agli amici, non è soltanto perché li sentiamo così prossimi al nostro vissuto quotidiano; né soltanto perché la loro innocenza di fronte alla sorte immane fa risaltarne la bontà. Piangiamo soprattutto perché ci rendiamo conto che i nostri affanni e il nostro egocentrismo – le nostre storie individuali cui diamo importanza spropositata, dalla curiosità per l'oroscopo all'ossessione per la psicologia – non sono nulla e nulla possono quando la Storia diventa un mitra, una bomba, un aero dirottato, un camion.