Il caso della messa per il boss mafioso e i rapporti tra stato e chiesa smascherati
La storia è di per sé istruttiva in quanto utile a mettere in luce due verità sottaciute per abitudine
Il caso di Grumo Appula è un piccolo male per un grande bene. È totalmente superfluo dibattere se il prete che voleva celebrare la Messa in suffragio dell'anima del boss abbia commesso o meno un errore; a riguardo esiste un pronunciamento del Vescovo competente cui bisogna ubbidire e basta. La storia tuttavia è di per sé istruttiva in quanto utile a mettere in luce due verità sottaciute per abitudine.
La prima è che in Italia, nonostante concordati e salamelecchi, lo Stato continua a percepirsi come ente intrinsecamente contrapposto alla Chiesa, ostile e vessatorio: non si spiegherebbero altrimenti il questore che dispone l'orario delle celebrazioni e il sindaco che ambisce a deporre il sacerdote, manco fossimo nel XII secolo o in piena caccia giacobina ai preti refrattari.
La seconda verità è confermata dal pronunciamento stesso del Vescovo, il quale ha applicato il canone che proibisce esequie e suffragi in caso di pubblico scandalo dei fedeli. Significa che una celebrazione non è evento privato ma presa di posizione, e che pertanto la pratica della fede ha una ricaduta sociale superiore alla contingenza della politica. Non si può ridurla a spiritualità da esercitarsi privatamente e arbitrariamente nella forma che si preferisce fino a che non collide col quieto vivere e col governo del territorio: non c'è riuscito il procuratore di Giudea, figuriamoci il sindaco di Grumo Appula.
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Le incoronazioni costano, scandalizzarsi no
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