Tutti i motivi del blackout di Gardaland
Il parco divertimenti più importante d'Italia è oggi del tutto slegato dal territorio e ha beneficiato di una modernizzazione che ha diseducato gli italiani
Per capire il blackout che ha colpito Gardaland ho letto “L'unico viaggio che ho fatto”, il libro di Emmanuela Carbé (minimum fax) dedicato al parco giochi più famoso d'Italia. Mi è parso di capire che di motivi intrinseci per il blackout ce ne sarebbe più d'uno. Da un decennio la seconda metà del nome di Gardaland ha prevalso sulla prima: la Merlin Entertainments, società del gruppo Blackstone, ha rilevato il parco e “ciò significa che nemmeno un filo d'erba di Gardaland è di proprietà di una famiglia veronese, di un magnate veronese, di una banca veronese”, scrive la Carbé che pure non è una delirante sovranista né una trumpiana del quadrilatero. La Merlin, per dire, è proprietaria anche di Madame Tussaud's, di Legoland e di chissà cos'altro. Inoltre Giorgio Tauber, chiamato quarant'anni fa dal fondatore Livio Furini a dirigere il parco, oggi non solo non lo dirige ma nemmeno lo riconosce più.
Per il semplice fatto che non lo si può riconoscere, materialmente: l'espansione delle attrattive ha portato all'eliminazione della bidonvia dalla quale si poteva osservare Gardaland dall'alto, capire che era un tutt'uno e comprendere la perfetta integrazione del Far West, della Valle dei Re e dei Corsari col territorio circostante. Gardaland era il contrario di un non luogo perché dall'alto si capiva che inglobava il Dugale, il torrente che scorre da Castelnuovo a Lazise diventando parte integrante del parco. Infine, la modernizzazione ha portato alla sostituzione dei vecchi biglietti a lento scorrimento con delle app che permettono di selezionare comodamente da casa le attrazioni da visitare, acquistare l'accesso e saltare la coda; eliminare le ore di attesa che ai tempi erano la principale esperienza con cui si rientrava da Gardaland, illudendosi che sarebbe stato meglio di come era, imparando che non si può mai avere tutto ciò che si desidera e usando tutta la pazienza per collaborare con Furini e Tauber nella loro disperata impresa di educare gli italiani, sin da piccoli, a stare in fila.
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Le incoronazioni costano, scandalizzarsi no
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