Cosa non torna nell'idea di finanziare un romanzo con i fondi pubblici
Se Goldoni avesse goduto di fondi ministeriali, anziché scrivere opere funzionanti avrebbe pensato a far cultura. E i lettori si sarebbero annoiati
Speriamo che l'auspicio espresso da Dario Franceschini a Tempo di Libri resti quel che è, ossia l'auspicio di un ministro a un'inaugurazione. Franceschini si è chiesto: “Perché lo Stato sovvenziona il cinema, gli spettacoli dal vivo e non le case editrici? Il settore va sostenuto con risorse pubbliche. Dobbiamo pensarci, trovare gli strumenti”. L'intento è commendevole ma speriamo se ne dimentichi e non ci pensi più; lo dico nell'interesse dei lettori, me compreso. Pensateci. È facile fare l'intellettuale, il genio e l'incompreso coi finanziamenti pubblici; coi finanziamenti pubblici è facile sputare in faccia al pubblico per dirgli che non capisce, oppure annoiarlo con la scusa che si è pagati per istruirlo. Un Carlo Goldoni scriveva anche sei commedie all'anno, e tutte piuttosto riuscite, perché un insuccesso al botteghino non avrebbe ripianato le spese sostenute dalla compagnia né garantito un guadagno ad autore, regista, attori e maestranze. Se Goldoni avesse goduto di emolumenti ministeriali, anziché scrivere opere funzionanti avrebbe pensato a far cultura; nel Settecento si sarebbero annoiati di più e nel Duemila avremmo una stella in meno nella storia della letteratura. Al cinema l'indicazione di finanziamento pubblico al lungometraggio ci appare annuncio pressoché certo di pesantume; a teatro, può spingerci a fuggire immantinente dalla platea senza rispetto per le altrui ginocchia. Immaginate di comprare un romanzo, tornare a casa, sedervi in poltrona, aprirlo e trovare nel colophon la seguente dicitura: “Opera letteraria di idoneità tecnica e qualità artistica riconosciuta di interesse culturale dal competente ministero mediante finanziamento pubblico pari a euro tot”. Allora cosa dovremo ridurci a fare per divertirci un po'? Guardare la tv commerciale?