Il genere è innato. Parola del feto di Ian McEwan
L'ultimo romanzo dello scrittore inglese segna la rivincita dei teorici della presenza di idee compiute nell'uomo già alla nascita. Alla faccia degli pseudo-empiristi
Bentornati, innatisti. I teorici della presenza di idee compiute nell'uomo già alla nascita – contrapposti agli empiristi, secondo i quali le idee derivano esclusivamente dall'acquisizione di esperienza crescendo – hanno trovato un campione insperato: Ian McEwan. Com'è noto, il suo nuovo romanzo “Nel guscio” (Einaudi) ha per voce narrante un feto, che dal pancione materno ascolta tutto e non vede nulla (e dice: “Sento, dunque sono”). Ora, già dalla prima pagina, questo feto dichiara che sentendo la parola “azzurro” si figura un evento mentale non troppo dissimile da “verde”, per quanto non abbia mai visto nessuno dei due colori né sappia cos'è un colore. Questo feto ciarliero e sveglissimo è in grado di riconoscere come cigola un letto quando qualcuno ci si siede, di ricostruire legami di parentela, di individuare un complotto senza avere mai esperito né letti né famiglie né tragedie, e solo un talentuoso come McEwan poteva trarne un capolavoro anziché un'inverosimile ciofeca. Ma quando il feto si ritrova una specie di gamberetto fra le gambe e capisce di essere maschio e non femmina, senza avere mai avuto contezza di studi biologici né di teorie sul genere, è lì che si verifica la decisiva rivalsa dell'innatista: quando una pagina di memorabile sarcasmo sceglie l'inevitabile concepirsi nel modo in cui si è determinati a priori, contrapponendolo al comodo pseudo-empirismo di chi si percepisce maschio o femmina, abile o disabile, bianco o nero a seconda di come le esperienze hanno forgiato la sua identità a posteriori.