Leggere Brera e scoprire che era il contrario dell'idea che abbiamo di lui
Sono passati 25 anni dalla morte del giornalista-scrittore. Ma chi sogna di raccoglierne l'eredità dovrebbe, per prima cosa, dimenticarsi di com'era
Orpo, è già trascorso un quarto di secolo dal giorno in cui Gianni Brera lasciò la vita e – sua definizione calzantissima – “questo lungo scombiccherato Paese”. Ancora ieri, come ogni anno, gli amici lo hanno ricordato con una pacciada a Spessa Po, lungo il grande fiume, dove il cugino Roveda fa servire un buon vino che, per antifrasi dialettale, è etichettato Ciurlina come la pipì stentata e mesta. Bere, mangiare, è un ottimo modo per non imbalsamare gli anniversari; così come leggere è modo ancor migliore per sfuggire alla tentazione di credere che, per diventare Brera, bastino la barba, la pipa, una bottiglia schietta e qualche parola difficile a casaccio. A leggerlo da cima a fondo, Brera emerge il contrario dell’immaginario postumo: era spietato, idiosincrasico, socialista a modo suo, razzista, nordista (diceva “Padania”, l’antesignano) nonché innamorato delle sue idee sbagliate. Voleva Facchetti centravanti. Probabilmente non potrebbe più scrivere per i giornali che oggi ne incensano la memoria. Non era un nemico del sistema-calcio né un autore di nicchia che scriveva per impressionare il volgo col vocabolario, bensì per fargli imparare qualche parolina in più inoculandola nella cronaca di un derby o nell’Arcimatto. Professionisti e semiprofessionisti del polpastrello, dovremmo soprattutto ricordarci che sin dai primi box firmati col giovanile pseudonimo di Gibigianna, Brera non volle mai imitare nessuno – ragion per cui è improponibile ambire a emularlo riproducendone il linguaggio, il mondo, il fegato, il vezzo di salutare colloquialmente a fine articolo. Se uno vuole diventare il nuovo Gianni Brera, per prima cosa deve dimenticarsi di lui.