Perché i veri nemici della lingua italiana sono i dialetti
Insegnare a parlar vernacolo oggi è tanto artificiale quanto un consesso di prussiani tenuto in kiswahili per far bella figura
Come l’Inquisizione Spagnola, l’Accademia della Crusca dovrebbe irrompere lì dove meno la si aspetta: non quindi al Miur per stigmatizzare l’eccessivo utilizzo ministeriale di termini inglesi nelle direttive per l’educazione all’imprenditorialità, bensì ad esempio nella biblioteca di Orino, provincia di Varese. Biblioteca ampia, biblioteca vivace, grazie al cielo; biblioteca però dove ogni mercoledì ci si riunisce per parlare due ore in dialetto. In gioco non è solo la cultura nazionale ma il senso stesso della lingua italiana. La lingua è infatti uno strumento che serve a comunicare contenuti in base al contesto in cui ci si trova calati, ed è tanto più utile quanto più aderisce a questo contesto in maniera naturale, evolvendosi in base all’esigenza di farsi capire qui e ora. Vedersi due ore per parlare in orinese di mercoledì (ma varrebbe anche se si parlasse in cuneese, in patavino, in frusinate o in nisseno), e poi tornare a vivere in italiano per le restanti centosessantasei ore della settimana, è tanto artificiale quanto un consesso di prussiani tenuto in kiswahili per far bella figura. Serve a un utilizzo decorativo della lingua, la riduce a vezzo; peggio, se si ha intento di preservare le tradizioni locali, la riduce ad archeologia. Un vaso greco esposto al museo smette di essere un vaso e diventa morto oggetto di contemplazione e studio; un dialetto parlato in biblioteca cessa di essere uno strumento di comunicazione e diventa una recita. L’Accademia della Crusca irrompa nella bella biblioteca di Orino (e degli altri comuni che hanno sposato iniziative simili) ed esorti i dialettofoni ad andare a parlar vernacolo fuori di lì, provando a farsi capire dal vasto mondo. Scopriranno così che il nemico dell’Italiano non è l’Inglese ma il folklore.