Le contraddizioni nella parità di genere sognata dal ministro Fedeli
Incentivare la presenza delle donne nelle università interferisce con meritocrazia e libertà accademica. Va bene le buone intenzioni, ma attenti agli effetti collaterali
Indovinello: di cosa sono lastricate le strade per l’inferno? Risposta esatta, di intenzioni buone come quelle contenute nelle “Indicazioni per azioni positive del Miur sui temi di genere nell’Università e nella Ricerca”. Il ministero dell’istruzione è mosso dal commendevole intento di porre riparo a due situazioni deleterie: lo scarto di carriera accademica (e conseguente remunerazione) fra uomini e donne e le scarse iscrizioni femminili alle cosiddette facoltà Stem – quelle che vertono su scienze dure, ingegneria, tecnologie e matematica. Bene. Il problema è il metodo un po’ leggero, che non sembra considerare gli effetti collaterali degli strumenti proposti: incentivi agli studi di genere, introduzione del bilancio di genere di ateneo (qualsiasi cosa significhi) e soprattutto “provvedimenti o note d’indirizzo”, sarebbe a dire penalità nei confronti di atenei che non dovessero garantire un’equa distribuzione dei posti di alta responsabilità scientifica. Se non che ciò contraddice due principii fondamentali su cui l’università fonda la propria specificità: la libertà accademica, ossia la possibilità che la comunità scientifica organizzi insegnamento e ricerca nel modo che ritiene più funzionale senza dipendere da direttive censorie; e l’ambizione quantomeno ideale che facciano strada i più meritevoli, senza considerarne genere né etnia né provenienza geografica o politica, in quanto è l’unico modo per consentire che la ricerca progredisca.
Naturalmente non è in questione il ruolo delle donne nell’università ma l’opportunità che il ministero utilizzi criteri che alla lunga possano incrinare l’indipendenza della ricerca: tradotto, che si preferisca un candidato a un altro o un progetto a un altro perché nell’immediato porterebbe qualche fondo statale in più. Non è una strategia saggia a lungo termine, così come non lo è ignorare che a monte delle scarse iscrizioni femminili alle facoltà Stem c’è una più generale reticenza ambosesso alle lauree scientifiche: gli studenti non vengono adeguatamente preparati durante le superiori, così che abbiamo eserciti di diplomati al liceo scientifico che poi s’iscrivono, boh, a giurisprudenza o a fisioterapia. Dubito infine che incentivare gli studi di genere possa invertire questa rotta; servirà tutt’al più a importare in Italia la moda segregazionista dell’America anni ’70, che vuole le donne intente a studiare altre donne, i nativi intenti a studiare gli insediamenti indiani, gli ebrei intenti a studiare filologia semitica e così via, ciascuno rinchiuso nel proprio guscio a contraddire l’interscambio universale dei saperi che, quando le direttive ministeriali non esistevano, diede il nome alle università.