La guerra fra poveri delle università italiane
Come interpretare le classifiche dei migliori atenei del mondo e i disastrosi risultati della ricerca italiana
Più patetiche delle classifiche delle migliori università - ieri ad esempio è stato pubblicato il ranking Quacquarelli-Symonds 2019 - sono solo le reazioni delle università italiane a tali classifiche. Anzitutto si esulta per il numero di atenei italiani fra i primi duecento o trecento o quattrocento al mondo, sottintendendo surrettiziamente che si tratti di un gruppo omogeneo e che quindi essere al centosettantacinquesimo o al duecentoquarantanovesimo o al trecentottantasettesimo posto significhi essere bene o male come la prima (il Mit di Boston), la quinta (Oxford) o anche solo la decima (University College London). Dopo di che si prende il bilancino e si passa a calcolare gli spostamenti infinitesimali, senza considerare che dieci o venti o anche ottanta posizioni in più non contano granché quando l'università italiana meglio piazzata è al centocinquantaseiesimo posto al mondo. E' una guerra fra poveri. Ed è una guerra fra timidi, poiché a ogni graduatoria sogno un rettore in grado di commentarla così: "O si dà credito a queste classifiche, e allora le università italiane sono da chiudere per manifesta inferiorità visto che leggi e leggine ombelicali c'impediscono di svilupparci per competere seriamente a livello di eccellenza. Oppure si dà credito a un'idea di università che veda il mondo accademico come una comunità d'interscambio globale, un'entità sovranazionale le cui varie sedi nel mondo non sono in competizione ma cooperano al sapere; e allora queste classifiche hanno lo stesso valore di quel peculiare tipo di carta che, vi assicuro, viene talvolta utilizzato anche da noi magnifici". Non accade mai.
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