Il (contro)senso della trasparenza
È il principale metro di giudizio dell'Italia di oggi. Quarant'anni fa era la bandiera di chi aveva qualcosa da guadagnare convincendo il pubblico, o il popolo, a vedere solo ciò che volevano loro
Nel libro di Stefano Massini sulla vita quotidiana durante il sequestro Moro (“55 giorni”, il Mulino) emerge con prepotenza una contrapposizione su come vadano trattati gli italiani. Nel 1978 lo Stato si ergeva a intercapedine educativa, come dimostrava il caso limite della Rai: da Maria Giovanna Elmi che esortava i bambini a non spaventarsi per i cartoni animali col razzo missile a Corrado che addomesticava Carmelo Bene a “Domenica In”. Il principio era che la nuda verità andasse mediata e bisognasse velare lo sguardo del pubblico, non per nascondere ma per mostrare: con tutte le cautele, quest’approccio paternalistico consentiva di guardare sia Goldrake sia “S.A.D.E.”, che l’impatto diretto avrebbe reso indigesti a grandi e piccini. Ora che invece la trasparenza è il principale metro di giudizio nell’Italia di quarant’anni dopo, giova ricordare chi la propugnasse all’epoca: pubblicitari e brigatisti. I primi ambientavano spot in tribunale (“Guardiamo ai fatti”) o escogitavano scatolette di tonno in vetro per far vedere che non c’era niente sotto. I secondi sbraitavano in stampatello, nei loro comunicati, “nessuna trattativa segreta, niente deve essere nascosto al popolo!”. È significativo che, in un modo o nell’altro, la trasparenza fosse la bandiera di persone che avevano qualcosa da guadagnare convincendo il pubblico, o il popolo, a vedere solo ciò che volevano loro.