Se voglio sentire una predica vado in parrocchia, non accendo Netflix
“Sense 8” e l'ossessione sull’accettazione del diverso, sulla resistenza all’autorità, sulla supremazia dei sentimenti
Avete già visto il gran finale di “Sense 8”? Io non ancora (con le serie tv sono più lento di Cottarelli) ma ci sto arrivando e, puntata dopo puntata, vedo materializzarsi un incubo: sullo stesso divano su cui avevo iniziato a guardare una storia ben congegnata di blanda fantascienza con una regia sapiente e ironica, mi sono via via ritrovato ad assistere a predicozzi sempre più estesi sull’accettazione del diverso, sulla resistenza all’autorità, sulla supremazia dei sentimenti, contro l’ottusità di personaggi piatti completamente inutili messi lì apposta per fare i fantocci da abbattere, contro la discriminazione, contro la violenza che è sempre maschile, eccetera. L’ironia si è trasformata in propaganda e la trama in tesi ideologica. Il problema non è il gender – ormai “gender” lo dicono solo gli insegnanti di religione alle medie inferiori – né tampoco la vita sessuale dei personaggi, che con una trans lesbica e un gay triolista poteva essere sviluppata in maniera più pimpante che aggiornando le fantasticherie romantiche di una massaia anni ’50. A letto ognuno può fare ciò che gli pare o quanto meno ciò che gli riesce. Il punto però è che se voglio sentire una predica vado in parrocchia, non accendo Netflix; e i Wachowski, se davvero credono che le serie tv siano una moderna forma d’arte, avrebbero potuto sforzarsi di elevarsi un po’ al di sopra dello schema concettuale dello sceneggiato edificante di Rai 1: di qua tutti i buoni, di là tutti i cattivi. Altrimenti sempre una fiction agiografica resta; anche Padre Pio, in fondo, era telepatico e aveva il dono dell’ubiquità.