A tavola ridatemi il cellulare, altro che libri di poesie
Al ristorante non serve citare versi in rima per dimenticarsi dell’esistenza degli smartphone
Dice che c’è un ristorante a Roma che sequestra i cellulari all’ingresso (consenzienti gli avventori, ovvio) e in cambio reca su un vassoio una selezione di libri di poesia da cui pescare uno spunto per la conversazione. Sarò un pessimo commensale ma ritengo che lo smartphone sia invece il miglior criterio per stabilire la qualità di un convivio in quanto, finché le persone con cui mangio dicono cose interessanti o almeno sensate, il telefonino diventa superfluo; in caso contrario è una necessaria ancora di salvezza e, se ogni locale lo sequestrasse per eccesso di fiducia nel dialogo, probabilmente la società come la conosciamo si estinguerebbe e tutti mangerebbero da soli. Ai più romantici garantisco inoltre che il momento in cui le coppie al desco tacciono e danno una scorsa al monitor non è necessariamente segno di disinteresse; significa forse anzi che si sta imparando a stare insieme senza riempire ogni minuto di parole, a garantire la propria presenza mentre si fa altro senza trasformare ogni appuntamento in tavola rotonda. Quanto alle poesie, l’idea è probabilmente tratta di peso da quel film dei Monty Python in cui il cameriere serve bigini di filosofia per parlare al ristorante dandosi un tono (al che una coppia agée, incartatasi su Nietzsche e Schopenhauer, protesta perché “ci sono troppe esse in questa conversazione” e se la fa cambiare). Chi ha avuto la fortuna di mangiare con poeti veri – a me è capitato con Patrizia Valduga e Franco Buffoni, per dirne due – sa che non c’è stato bisogno di versi perché le loro parole a tavola facessero dimenticare dell’esistenza degli smartphone; mentre, se all’improvviso un commensale si alzasse per declamare “Il gelsomino notturno” o anche solo “La vispa Teresa”, non credo che la cena se ne gioverebbe, per quanto non potrei mai esserne certo poiché, a quel punto, me ne sarei già andato. Col cellulare.
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