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L'impossibilità di meccanizzare la felicità

Antonio Gurrado

La storia di Stefano Scialpi che aveva tentato di ritagliarsi uno strapuntino nel jet set nel ruolo di “chief happiness officer" e ora, per un’orrida storia d’amore andata a male, accusato di stalking

Se fossimo qui per divertirci gratis, sarebbe facile fare gli spiritosi sul felicitario triste. Questo Stefano Scialpi, torinese, aveva tentato di ritagliarsi uno strapuntino nel jet set nel ruolo (cito) di “chief happiness officer, che unendo coaching e pedagogia steineriana è diventato il primo felicitario del pianeta”. Ora invece, per un’orrida storia d’amore andata a male, è accusato di stalking dall’ex moglie fra le risatine dei commentatori. Ma come, dicono, non era anche relationship trainer? Non sapeva tutto dei rapporti interpersonali e familiari, al punto da tenere corsi intitolati “Genitore felice”, “Una mamma per amica”, “Fai rendere il meglio a tuo figlio”? Come fa un felicitario, per giunta il primo al mondo e forse l’unico, ad avere una sorte così infelice? E giù risate.

 

Siccome invece siamo qui per ragionare, cerchiamo di trarre un insegnamento utile da questa storia che speriamo si rappattumi. Il motivo per cui bramiamo la felicità e c’illudiamo che possa essere insegnata e trasmessa è che la identifichiamo con un tenore di vita estraneo, che mette insieme caratteristiche desiderabili delle esistenze di chi sta meglio di noi. Se invece ci guardiamo dentro, scopriamo che la felicità è sempre qualcosa di troppo inafferrabile e fragile per essere definita o meccanizzata in un corso o in un’ortoprassi; e se potessimo guardar dentro le persone che invidiamo, scopriremmo che vorrebbero essere felici rubandoci qualcosa che nemmeno facciamo caso di avere. La prima cosa che un felicitario triste può insegnare è che la felicità, quella standard, è sempre altrui.

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