Quel ragazzo non è morto solo per un selfie
Il caso del 15enne che per scattarsi una foto è precipitato dal tetto di un centro commerciale a Milano
La disintermediazione della tragedia è il tratto saliente del modo in cui è stata narrata l'orribile, tremenda storia del quindicenne di Sesto San Giovanni che il consenso unanime dell'informazione ha definito "morto per un selfie". Di fronte all'enormità dell'evento e delle emozioni che ha provocato in chiunque conservi ancora un briciolo di umanità, attribuire la morte di un adolescente a un ritrovato tecnologico è un modo di esorcizzare la verità eterna che questo dramma racconta: che la gioventù riluce d'incoscienza, che il rischio è il più gustoso dei veleni, che le disgrazie colpiscono da sempre e per sempre con un criterio assurdo che il nostro giulivo positivismo non riuscirà mai a comprendere. La morte per selfie è una scorciatoia che permette di non arrovellarsi su concause ed eventuali responsabilità, dagli amici alle norme di sicurezza al cieco fato. Ancora peggio è, come ha fatto qualcuno, ovviare allo smarrimento che questa storia scatena ricostruendone la genesi per mezzo dello spoglio dei post della vittima sui social network; che è un tentativo di razionalizzare l'inaccettabile incomprensibilità dell'accaduto rinvenendo prodromi semplicistici che potrebbero spiegarlo senza considerare che la disgrazia non è una diretta conseguenza. Tale razionalizzazione è frutto della convinzione erronea che a ogni azione virtuale sui social debba corrispondere una reazione concreta nella vita; ed è un paralogismo tanto grave quanto l'inverso, secondo cui a ogni azione concreta nella vita debba immediatamente corrispondere una reazione virtuale sui social. Per questa foga insensata la sorella della vittima ha appreso della morte da Instagram, prima ancora che i genitori potessero informarla con le dovute cautele; ciò dimostra che, calamitati dai nostri smartphone, tutti ci stiamo sporgendo lì dove non dovremmo.