Un incubo chiamato Miss Italia
Sono d’indole pacifica anche mentre dormo, dunque perfino nei sogni resto ostile alle competizioni
Ho avuto un incubo: Miss Italia. Lo show – a causa del torpore sul divano dopo una cena forse troppo lauta – in ottemperanza all’evolversi dei tempi aveva rinnegato le proprie radici di concorso di bellezza ma, per continuare a venir trasmesso e commentato, si era trasformato in gara fra donne in ragione del loro spessore umano, della loro cultura, della loro resilienza a esperienze avverse e del loro incarnare una minoranza che poneva una sfida alla società. Per maggiore sicurezza, le concorrenti sfilavano in costume da bagno ma la kermesse veniva tramutata in concorso di bontà. Sono d’indole pacifica anche mentre dormo, dunque perfino nei sogni resto ostile alle competizioni: i concorsi di bellezza avvelenano ciò che dovrebbe addolcirci; i premi letterari trasformano la letteratura in corsa di ranocchi; e, quando periodicamente qualcuno lancia la brillante idea di conferire il Nobel per la Pace al Papa, mi vien voglia di fracassare il pastorale sulla testa di chi ritiene che essere vicario di Cristo non valga una medaglia o una targa. Tanto meno mi sembrava sensata una disfida etica, per vedere chi sia più buono o moderno o meritevole di ammirazione: poiché la bontà è sempre gratuita e non prevede niente in cambio, lo spessore di una persona non ha unità di misura e la capacità di reagire alle disgrazie esige più pudore di un costume intero. Quand’ecco accadeva l’impensabile: il concorso di bontà scatenava cattiveria, dal pubblico si riversavano insulti sulle partecipanti e le si accusava di far commercio della propria storia individuale per ottenere il favore della giuria. Il buon esempio era stato fagocitato dalla competitività e dal tifo cieco. Che orrore; allora mi svegliavo di soprassalto e, ansimando, scoprivo che per fortuna la tv era accesa su Netflix.