Non ci sono squadre avversarie di fronte alla morte
Perché i palloncini tricolore liberati a Macerata all’apertura del processo sull’uccisione di Pamela Mastropietro non sono consolanti
Non trovo consolanti i palloncini tricolore liberati a Macerata all’apertura del processo sull’uccisione di Pamela Mastropietro, e non per questioni politiche: quando la gente soffre e muore, la politica m’interessa gran poco. Vale per questo caso specifico come per molti altri (i morti in mare, gli infoibati e così via) la considerazione generale che, quando l’opinione pubblica identifica un morto con una sua caratteristica condivisa, quando la cronaca lascia trasparire la sua catalogazione per nazionalità o per genere o per classe sociale o per chissà cos’altro, l’effetto collaterale è il rischio di dimenticare che si tratta di una persona, unica e irripetibile. Come tale non è riducibile a nessuno dei contenitori in cui la si infila per semplificare e, magari, per trovare contromisure razionali all’incomprensibilità dell’orrore e all’abisso del male. Questa riduzione dell’anima a categoria ci porta, temo, a un belluino suddividere i nostri morti da quelli altrui, distinguendoci per squadre di fronte alla sorte che accomuna tutti gli uomini, e giustificando di riflesso l’istinto più inumano: sentirsi in diritto di non provare pietà per l’anima di chi appartiene al campo avverso, a un altro sesso, a un’altra nazionalità, a tutto ciò che non siamo e in cui non ci riconosciamo.
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