Le giravolte populiste spiegate da Guicciardini, cinquecento anni fa
Chi comanda, per sembrare credibile e venire apprezzato, deve mostrare al popolo di condividere la sua stessa volubilità
Se questa settimana vi hanno sorpreso le giravolte di qualche leader populista (ad esempio quelle di Matteo Salvini raccontate da Salvatore Merlo), avete tutto il weekend per leggere Guicciardini: è morto da cinquecento anni ma capisce benissimo il mondo di oggi. Scrive infatti che sbaglia “chi attribuisce al popolo la constanzia e la prudenzia, e chi in queste due qualità lo antepone ai prìncipi”: perché chi governa per conto proprio può attenersi a una precisa linea di condotta, mentre “dove è moltitudine quivi è confusione. Muovonsi gli uomini leggermente per ogni vano sospetto, per ogni vano romore; non discernono, non distinguono, e con la medesima leggerezza tornano alle deliberazioni che avevano prima dannate, a odiare quello che amavano, a amare quello che odiavano”.
Le giravolte non sono che un effetto collaterale del modo in cui, a ogni latitudine, il populismo ridisegna i rapporti fra governanti e governati. Chi comanda, per sembrare credibile e venire apprezzato, deve mostrare al popolo di condividere la sua stessa volubilità, la medesima incostanza; deve giustificare col proprio comportamento individuale l’intrinseca tensione delle masse alla levata di scudi ora verso un’idea, ora verso il suo opposto. Deve insomma, un leader populista, contenere moltitudini e farsi egli stesso popolo, sperando che a nessuno salti l’uzzolo di andare a leggere quell’altro brano in cui Guicciardini definisce il popolo “uno animale pazzo”; non sia mai che si confonda, superficialmente, la collettività col singolo.