Perché finanziare la ricerca col crowdfunding non fa bene all'università
Se lo sviluppo dei progetti è subordinato alle offerte di una giuria popolare su Facebook significa che non abbiamo futuro
La notizia della ricercatrice universitaria di Torino che ha ottenuto finanziamenti col crowdfunding su Facebook è buona per lei ma non altrettanto per l’università. Sia perché sottoporre la ricerca al giudizio popolare (e il versamento di un obolo è il giudizio più sincero che esista: l’organo più sensibile del nostro corpo è il portafoglio) prefigura un futuro in cui la cernita dei progetti di ricerca cui garantire sopravvivenza sarà affidata sui social a chi non ha gli strumenti per coglierne rilevanza e utilità. Sia perché il popolo è spilorcio o, quanto meno, dona il poco che si ritrova: in tutto la ricercatrice ha racimolato undicimila euro, che le consentiranno di lavorare fino a ottobre. E poi ci si rivolgerà a Instagram o a Twitter? L’esultanza dell’università per la bella notizia della ricerca finanziata dal crowdfunding coincide con l’ammissione di non essere in grado di pagare qualcuno per sei mesi.
Bandiera bianca
La vittoria di Meloni (Simona, non Giorgia) e le parole magiche
Bandiera bianca