Dare un senso all'autodistruzione dei giovani
Contro l’illusione che basti un libro di sociologia giovanile o una campagna extracurricolare a scuola, un progetto didattico di buoni sentimenti a educare gli adolescenti a capire cos’è il male
Che muoiano in discoteca, che si schiantino in automobile, che si droghino, che ammazzino i genitori, che si devastino nei rave, che caschino nel vuoto per un selfie, che diventino bulli o loro vittime, che si prostituiscano, che lancino sassi dal cavalcavia, eccetera, ci sarà sempre sui giornali una spiegazione lineare e contrita dell’autodistruzione dei giovani. Ne è l’alfiere Vittorino Andreoli: quando ero adolescente ricevevano grande ascolto le sue disamine che illuminavano gli abissi della gioventù di ieri; ora che sono adulto ricevono grande ascolto le sue spiegazioni sugli abissi della gioventù di oggi; e un domani morirò sicuro che, qualsiasi gorgo inghiotta giovani vite, ci sarà a illustrarne le ragioni un Vittorino Andreoli magari bionico o clonato.
Né è colpa sua: lui e i suoi epigoni o colleghi o imitatori rispondono a una diffusa necessità di appianamento dell’irragionevolezza del reale. Gli adulti hanno bisogno di illudersi che la spiegazione ex post della follia o dell’autolesionismo giovanile diventi strumento preventivo per i giovani. È il mito della virtù insegnabile, l’illusione che basti un libro di sociologia giovanile o una campagna extracurricolare a scuola, un progetto didattico di buoni sentimenti o la semina di un hashtag volenteroso a educare i giovani a capire cos’è il male, individuarne le radici ed evitarlo per sempre. Ma da quando, adolescente, fui sottoposto all’edificante costrizione di leggere un saggio di Vittorino Andreoli (o chi per lui) i giovani hanno continuato indefessi a morire in discoteca, schiantarsi in auto, drogarsi, uccidere i genitori, eccetera, causando altre spiegazioni lineari e contrite e così via, all’infinito.