Condannati a morte su Zoom
L'amara, tragica e disumana ironia del sottoporre qualcuno alla pena capitale tramite videochiamata
Era successo qualche giorno fa in Nigeria ed è successo di nuovo a Singapore: una persona è stata condannata a morte su Zoom. Il lockdown impazza e nella città-stato asiatica i tribunali sono ancora chiusi, quindi si tengono a distanza anche i processi penali che prevedono la pena capitale. C’è qualcosa di ulteriormente disumano nel condannare qualcuno a morte tramite videochiamata, per quanto previamente sincerandosi – come riportano le cronache – che la connessione sia abbastanza stabile da far sentire forte chiara la sentenza. Forse è l’antico retaggio per cui le cattive notizie è meglio darle di persona. O magari è la negazione della presenza fisica, che appare una spoliazione di dignità che si aggiunge alla negazione del diritto alla vita; come se si cercasse di esorcizzare l’idea che il condannato a morte disponga di un corpo, di funzioni vitali che occupano spazio, e si tentasse di ridurlo a immagine lontana, a sagoma, a simbolo che può essere spento con un clic. Ma ciò che colpisce di più è la fretta: c’era davvero quest’urgenza di emanare una sentenza del genere prima che passasse l’emergenza sanitaria e si potesse tornare a tenere processi di persona senza timore di contagio? C’è un’amara, tragica ironia nel condannare a morte qualcuno su Zoom per evitare di mettere a rischio delle vite.