La gentilezza è la nuova frontiera della discriminazione?
Lo sostiene Rebekah Taussig, giovane scrittrice in sedia a rotelle. Non posso avere la sua prospettiva e non la giudico, ma spero non diventi una scusa per smettere di aiutare gli altri
La gentilezza è la nuova frontiera della discriminazione? Non ridete, è una domanda seria. La pone (e risponde di sì) Rebekah Taussig nel memoir “Sitting Pretty”. Si tratta di una giovane scrittrice in sedia a rotelle che identifica gli slanci collaborativi dei passanti in altrettante inconsapevoli espressioni di una discriminazione che definisce _ableism_, quella insomma dell’abile nei confronti del diversamente abile. Nell’anticipazione su Time parla di una signora che l’abborda costringendola a pregare per guarire – si sa che per le sette protestanti americane Dio è una specie di juke-box – e ciò è oggettivamente sgradevole. Ma come la mettiamo con i signori che, nel parcheggio del supermercato, vogliono aiutarla a caricare la spesa in auto mentre smonta la sedia a rotelle per mettersi al volante?
Dal punto di vista di Rebekah Taussig è un atto discriminatorio (per quanto con le migliori intenzioni) poiché presuppone che lei non ce la faccia e abbia bisogno di aiuto non richiesto; significa che il soccorritore indesiderato dà per scontato che lei si faccia male, quando invece non le accade mai. Io che non posso avere la sua prospettiva non posso sapere come ci si sente, pertanto non mi esprimo sulla sua teoria. Mi limito a esporre la mia, secondo cui la gentilezza non è tanto il riconoscimento della debolezza altrui quanto l’ammissione della propria, sottintendendo la speranza di trovare qualcuno che aiuti me come io aiuto gli altri. Per questo spero che non si diffonda una nuova categoria di discriminazione, magari denominata gentilismo. Perché poi, se per non offendere qualcuno non lo aiuto e si fa male, non saprò dove porre il confine fra il rimorso per non avergli evitato un danno e la soddisfazione di non averlo discriminato.