bandiera bianca
Vie al femminile e vie senza padroni
Nomi (di donne), cose, città e persino leggende. Per una toponomastica meno funerea
Il comune di Guspini, nel Medio Campidano, ha assegnato nomi di donne a un’intera zona del paese. E in Toscana, dopo la fusione dei comuni di Barberino Val d’Elsa e Tavernelle Val di Pesa, il progetto “Strade nuove” ha ribattezzato con nomi di donne numerose vie che, a fusione avvenuta, presentavano omonimia a causa della loro intitolazione inflazionata, ad esempio 2 giugno o Aldo Moro. Commendevoli iniziative animate dalle migliori intenzioni, che tuttavia hanno un difetto ciascuna. La prima, confinare la toponomastica femminile in una sorta di recinto, un po’ come negli anni Novanta andava di moda chiamare le strade delle zone industriali con nomi botanici – via dei Gliadioli, via della Verbena – per sollevare il morale attorno alle ciminiere fumanti. La seconda, ridurre la toponomastica femminile a riempitivo, a toppa su un disguido. Meglio di niente, certo.
Io però, che amo gli oggetti inanimati e i concetti astratti, mi sento di spezzare una lancia in loro favore e tagliare la testa al toro. Evviva le strade adespote! Evviva le strade che non commemorano nessuno, che non offendono nessuno, che non danno importanza a nessuno, che non trascurano nessuno né inducono i passanti a domandarsi: “Fabio Filzi / Edoardo Jenner / Opicino de Canistris, chi era costui?”. Strade che prendono nome da ciò che caratterizza la strada stessa: un monumento (via della Chiesa Rossa), un’istituzione (via dei Tribunali), una constatazione (via Larga), un’attività (via del Mercato), una descrizione (Interrato dell’Acqua Morta), un’esperienza (strada Persa), una leggenda (la mia preferita è via del Muto Dell’Accia Al Collo). Quella dove abito io potrebbe venire ribattezzata via Che I Rider Non Trovano Mai. Certo, sarebbe un sacrificio per tutti i comuni di buona volontà; niente però che non possa essere risolto con qualche sindaco donna in più e qualche lapide di periferia in meno.
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