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La Super League è l'inevitabile scivolamento delle nostre vite dal reale all'immaginario
Col suo carniere di partite reiterate allo sfinimento, la competizione costituisce un ulteriore tassello nell’ambizione di far somigliare il calcio ai videogiochi
La Superlega non mi entusiasma ma nemmeno mi preoccupa. Il calcio vive da cent’anni di scissioni e ricomponimenti – il rifiuto inglese di partecipare ai Mondiali, i due scudetti paralleli del 1922, la Coppa Intercontinentale disputata con regolarità ma non riconosciuta ufficialmente – quindi, sotto i titoloni della cronaca, si nasconde l’ordinaria amministrazione della storia. A guardare la Superlega mi annoierò perché penso sia un’evoluzione inevitabile: non tanto per i soldi, ché le attuali competizioni non mi sembrano francescane, quanto per la proiezione di sé che il calcio ha offerto nell’ultimo trentennio. Grossomodo dall’epoca di Blatter e Johansson il costante obiettivo del calcio è stato di assecondare la più sfrenata fantasia dei tifosi. Alcuni provvedimenti sono andati a buon fine: assegnare più punti alle vittorie, creare tornei elefantiaci, minimizzare i rischi per le squadre più blasonate.
Altri tentativi – allargare le porte, accorciare i calzoncini delle calciatrici, interrompere le partite a capocchia durante i supplementari – invece sono falliti. A ciò hanno contribuito anche i cronisti, dando progressivamente meno spazio ai fatti e più alle interpretazioni, meno spazio a cronache risultati e tecnica ma più a voci di mercato, retroscena lambiccati, esegesi dei tweet di semianalfabeti. La Superlega, col suo carniere di Juventus-Barcellona e Milan-Manchester United reiterate allo sfinimento, costituisce un ulteriore tassello nell’ambizione di far somigliare il calcio ai videogiochi, dove un torneo fantasmagorico non si nega mai e c’è sempre un pulsante per rigiocare. La Superlega è inevitabile perché è solo un aspetto del progressivo, inesorabile slittamento delle nostre vite dal reale all’immaginario.
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