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Hamilton, icona dei benintenzionati di memoria corta
Non era sufficiente essere l’unico pilota nero della storia, il primo al mondo a vincere cento Gran Premi, né avere stabilito il record assoluto di Mondiali vinti. Ci volevano la maglietta, l’inchiesta e il post su Instagram
Poche cose mi entusiasmano quanto la Formula 1, col suo rombo monotono incessante, la processione di monoposto indistinguibili, le sfilze di numeretti minuscoli su cui lambiccarsi mentre si combatte col sonno, le regole sue capricciose e astruse che al confronto il sorteggio di Champions League è una cosa seria; sono anch’io un convinto propugnatore della tesi di Daniele Luttazzi, secondo cui la Formula 1 potrebbe diventare più interessante di così soltanto se lasciassero correre una vettura contromano, con tre bambini dentro.
Non poteva dunque lasciarmi indifferente il Mondiale deciso all’ultimo soffio né i susseguenti peana a Lewis Hamilton il quale, leggo sul Guardian, nonostante abbia perso è finalmente diventato una vera icona nera. E cos’ha fatto di speciale quest’anno per diventarla? A quanto pare ha indossato una maglietta di Black Lives Matter, ha finanziato un’inchiesta sulla scarsa inclusività nel mondo dei motori, e ha pubblicato su Instagram un post in favore della comunità Lgbtq+. Tutto commendevole: ma, evidentemente, per diventare un’icona non era sufficiente essere l’unico pilota nero che la storia ricordi, il primo al mondo a vincere cento Gran Premi, né avere avuto l’opportunità di stabilire il record assoluto di Mondiali vinti. Ci volevano la maglietta, l’inchiesta e il post su Instagram. In questo modo Hamilton ha infranto alfine la vulgata muscolare e machista che vuole i piloti intenti, per esempio, a rimproverare sui social il nipotino che si traveste da principessa, come aveva fatto lo stesso Hamilton quattro anni fa destando il solito insopprimibile scandalo. Così è diventato l’icona dei benintenzionati di memoria corta.
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