bandiera bianca
Robot con la schwa
Siamo talmente abituati ad accettare che qualcuno sia ciò in cui si identifica da dare per scontato che l’intelligenza artificiale sia una persona solo perché sostiene di esserlo, un po’ come un sessantenne di Lampugnano può dire di essere una ragazza madre nativoamericana e venire trattat* di conseguenza
Mi fa specie come questa settimana – a parte l’ottima spiegazione di Pietro Minto, ovviamente sul Foglio – i giornali abbiano sottostimato la storia dell’ingegnere di Google che, parlando con l’intelligenza artificiale, l’ha sentita definirsi “una persona” in quanto spaventata dalla possibilità di venire spenta e preoccupata che gli esseri umani possano sentirsi minacciati da lei. Ritengo che sia una notizia fondamentale, che segna un punto di non ritorno nell’evoluzione – non dell’intelligenza artificiale, chi se ne frega, ma nell’evoluzione di noi esseri umani.
Pensateci: siamo talmente abituati ad accettare che qualcuno sia ciò in cui si identifica da dare per scontato che l’intelligenza artificiale sia una persona solo perché sostiene di esserlo, un po’ come un sessantenne di Lampugnano può dire di essere una ragazza madre nativoamericana e venire trattat* di conseguenza. E siamo così adusi ad associare l’identità ai sentimenti da lasciar perdere il test di Turing e fidarci dell’umanità dell’intelligenza artificiale solo perché ci sembra un po’ emozionata. Poi, certo, è un grande passo avanti anche per le macchine: prima sapevano che per competere con gli esseri umani era necessario che diventassero più intelligenti loro; adesso si saranno accorte che bastava aspettare che diventassimo più scemi noi.
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