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Ma quale "voglia di lavorare"! Cari giovani, siate meno emotivi
Non c'è bisogno di trasformare il lavoro nella realizzazione di un desiderio. Appunti sulla vicenda dell'aspirante commessa di Secondigliano e lo stipendio da 280 euro al mese
Ci sta sfuggendo di mano questa faccenda dell’aver voglia di lavorare. Nell’ormai celebre dialogo (vero? presunto? sui social non si sa mai) pubblicato su TikTok dall’aspirante commessa di Secondigliano, alla quale una negoziante offriva duecentottanta euro di stipendio mensile in cambio di dieci ore di lavoro al giorno, la famosa voglia di lavorare risultava discriminante decisiva da entrambe le parti. La negoziante accusava i giovani di non aver voglia di lavorare. E l’aspirante commessa replicava in sostanza che sono proposte economiche del genere a far passare ogni voglia.
È un effetto della tirannia delle emozioni in cui ci dibattiamo, dando per scontato che facciamo qualcosa solo perché ne abbiamo voglia e che, se abbiamo voglia di fare qualcosa, allora dobbiamo farlo. Qualcuno (lo faccio io) dovrebbe invece chiarire che si può avere voglia di mangiare, di dormire, di ubriacarsi, di viaggiare, di guardare un film, al limite di scopare; ma voglia di lavorare proprio no. Infatti per tutti i casi precedenti in qualche modo si paga la realizzazione del desiderio, mentre lavorando si viene pagati allo scopo di poter soddisfare le voglie di cui sopra. Se uno avesse voglia di lavorare, dovrebbe pagare il datore di lavoro allo stesso modo in cui pagherebbe un ristorante, un albergo, un bar, un aereo, un cinema, una prostituta. A meno che tutto ciò non sia un equivoco e la negoziante in realtà non intendesse che, avendo voglia di lavorare dieci ore al giorno, i duecentottanta euro al mese l’aspirante commessa avrebbe dovuto scucirli di tasca propria.
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