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Più che tutelare la lingua italiana servirebbe impararla
Il vicepresidente della Camera Fabio Rampelli ha sottoscritto una proposta di legge che prevede l'obbligo di usare la lingua italiana nelle comunicazioni per la pubblica amministrazione. Sarei favorevole a un’interpretazione estensiva
Sono molto d’accordo con la proposta di legge, avanzata da un qualche fratello d’Italia, di rendere obbligatorio l’utilizzo della lingua italiana in tutti i documenti della pubblica amministrazione. Sarei anzi a favore a un’interpretazione estensiva, che obblighi all’italiano chiunque abbia a che fare con la cosa pubblica: impiegati comunali, insegnanti e studenti, dipendenti pubblici di varia sorta, estensori della legislazione, e ovviamente i politici di ogni ordine e grado, da chi governa la nazione a chi intenda candidarsi a uno strapuntino in consiglio circoscrizionale.
Solo, però, la proposta di legge intende imporre l’italiano contrapponendolo all’inglese, ambizione insensata in quanto, se uno la parla bene e sa utilizzarne i termini a proposito, può utilizzare qualsiasi lingua senza che la comunicazione ne risenta. No, io non propongo di dire “pellicola” anziché “film” o “diporto” anziché “sport”; io esigo che chiunque abbia a che fare con lo stato utilizzi l’italiano in maniera corretta e limpida, senza solecismi e senza concordanze a capocchia, senza calchi esterofili, senza vocaboli equivocati, senza astrusi barocchismi da azzeccagarbugli, senza “decade” per dire “decennio”, senza “congiunti” e senza “combinato disposto”, senza “piuttosto che” disgiuntivo, senza “resilienza” e senza “barra dritta”, senza insomma affliggerci né con l’italiano neostandard a cazzo di cane né con l’italiese tutto fumo e niente arrosto.
Allora, grazie a quest’obbligo, ci troveremo dinanzi a un’alternativa: o una nazione senza governo, senza scuola, senza uffici pubblici, tutto chiuso per manifesto analfabetismo; oppure una nazione di italiani finalmente costretti a imparare l’italiano.
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