Nel “Postino”(1994), Maria Grazia Cucinotta è Beatrice Russo, la donna amata da Mario ( Massimo Troisi) 

bandiera bianca

Troisi e la lingua dell'amore

Antonio Gurrado

Guardando il documentario di Mario Martone "Laggiù qualcuno mi ama" ci si accorge che per l'attore napoletano tutti i rapporti uomo-donna, con gli annessi guai che comportano, si possono ridurre alla faticosa interazione fra dialetto e italiano

Faccio due conti: quando Massimo Troisi è morto, io mi affacciavo all’adolescenza e con essa, fatalmente, all’amore. A quell’età era inevitabile identificarsi con la timidezza e l’incertezza che Troisi impersonava sullo schermo, ma anche col suo costante mormorio dissacratorio.

  

Adesso, guardando Troisi remixato nell’appassionato documentario di Mario Martone "Laggiù qualcuno mi ama", mi accorgo di un dettaglio in bell’evidenza: in Troisi, gli uomini parlano sempre in dialetto e le donne sempre in italiano. Parlano, cioè, in dialetto solo quelle donne-non donne nell’immaginario maschile (la madre, la sorella) ma il lessico delle amate è sempre appropriato, scandito, petrarchesco: Fiorenza Marchegiani in “Ricomincio da tre”, Giuliana De Sio in “Scusate il ritardo”, Amanda Sandrelli in “Non ci resta che piangere”, Francesca Neri in “Pensavo fosse amore”… Tutti i rapporti uomo-donna, con gli annessi guai che comportano, si possono ridurre alla faticosa interazione fra dialetto e italiano: due lessici che comunicano ma non si sovrappongono; due mondi linguistici costantemente impegnati in una lotta gerarchica, l’italiano convinto di essere più giusto e nobile del dialetto, il dialetto consapevole di essere più schietto e sincero dell’italiano che suona sempre un po’ artefatto.

  

Nel documentario, la presenza luminosa di Anna Pavignano – coautrice a lungo amata da Troisi – rende clamorosa questa costante: infatti la Pavignano è piemontese e le registrazioni dei dialoghi fra i due sembrano davvero un dolcissimo spin-off del film eterno che Troisi ha girato tutta la vita. È un elemento tanto lampante che, nel documentario, non c’è nemmeno bisogno che nessuno lo dica, e chissà quanti eserciti di critici lo hanno notato prima di me; quindi esco dal cinema pensando che, se solo me ne fossi accorto trent’anni fa, se solo non fossi così tardo a rendermi conto delle cose evidenti, che adolescenza migliore avrei avuto fino a oggi.

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