Le battaglie per la sovranità alimentare e per l'autarchia lessicale confondono estetica ed etica
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Le battaglie per la sovranità alimentare e per l’autarchia lessicale confondono estetica ed etica. La battaglia per la sovranità alimentare si fonda su un assunto – bisogna mangiare cibo italiano a discapito di quello estero – il cui presupposto sembra relativo alla sfera del piacere, quando invece ricade in quella comportamentale. In parole povere, siamo sicuri che un prodotto alimentare italiano scadente sia meglio di un ottimo prodotto alimentare di provenienza esotica o magari ignota? L’unico obbligo che abbiamo nei confronti del cibo è di natura estetica, ovvero mangiare quanto di più buono possibile; una prescrizione relativa alla nazionalità è invece di natura etica, poiché sottintende che un alimento vada preferito anche se meno buono perché italiano, perché si fa così.
Il contrario accade invece con l’autarchia lessicale, quella che minaccia multe per chi usa forestierismi nei pubblici documenti. In tal caso, si riduce a faccenda meramente estetica una questione di natura profondamente etica. Si presuppone infatti che termini stranieri e italiani si equivalgano e siano intercambiabili (non sempre è così), e che la lingua patria vada preferita perché è più bella. Invece i documenti hanno il dovere etico di essere comprensibili, quindi bisognerebbe far sì che chi li stila utilizzi termini comprensibili a quante più persone: se è più efficace il termine italiano, va benissimo; se invale l’uso di un termine straniero di vasto consumo, ricorrere a traduzioni astruse o perifrasi ambigue può essere controproducente. L’unico procedimento davvero etico in materia sarebbe annullare immediatamente la validità di qualsiasi documento contenga, in italiano o meno, errori di grammatica, sintassi ingarbugliata, concordanze spiazzanti, parole usate a capocchia.
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