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Abbassare i prezzi del teatro non ne farà aumentare il valore
Secondo Damiano Michieletto il problema delle produzioni teatrali è che non hanno drammaturghi bravi e che i biglietti costano troppo. Ma sono due condizioni inconciliabili
Mi sono innamorato di Damiano Michieletto una decina d’anni fa, grazie a un “Ventaglio” di Goldoni dinamico e variopinto, sul sottofondo ossessivo di Amy Winehouse; attendo con entusiasmo, trepidazione e brama il suo allestimento dei “Contes d’Hoffmann” (per ora a Sydney, un po’ fuori mano), opera che Offenbach sembra avere scritto centocinquant’anni fa pensando proprio a come avrebbe potuto dirigerla lui. Nel frattempo, mi spingo fino a eccessi di fandom tali da leggere perfino le interviste che rilascia a Repubblica: oggi ha dichiarato che il guaio dell’opera è l’assenza di drammaturghi, in quanto quelli bravi preferiscono guadagnare bene con una serie tv, anziché mettere a rischio le rate del mutuo nel tentativo di diventare i nuovi Illica e Giacosa; e che ci vuole una nuova politica dei prezzi che consenta di comprare il biglietto per l’opera anche a chi non può permettersi di spendere cifre esorbitanti.
Sono entrambe considerazioni giuste, che però non stanno bene insieme. Se gli autori di una serie guadagnano bene, è perché un sacco di gente preferisce investire cinquanta euro nel guardare un mesetto di Netflix più Disney più Amazon Prime più Sky, anziché spendere la stessa cifra per passare tre giornate a cercare l’anello del Nibelungo. E se invece si abbassassero i prezzi dei biglietti d’opera, poi chi paga non solo il drammaturgo ma anche i cantanti, i coristi, le comparse, le maestranze, gli orchestrali, il direttore, il regista? Non si rischia che la gente pensi che un’opera da tre euro valga comunque meno di una serie tv per cui ne spende dieci?
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